L’arte del corrispondente

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Non fu certo facile per Helen Kirkpatrick, quel giorno di fine agosto del 1944, rifiutare l’invito a pranzo di Ernest Hemingway. La giornalista del Chicago Daily News aveva trentacinque anni ed era corrispondente in Europa fin dal 1939, quando era cominciato il secondo conflitto mondiale. Il suo nome campeggiava da tempo sulla prima pagina del quotidiano di Chicago. I suoi articoli, in cui raccontava le incursioni aeree tedesche su Londra, lo sbarco americano nell’Africa del Nord e poi quello in Normandia, erano annunciati dagli strilloni sulla Michigan Avenue. «Read Helen Kirkpatrick!».
Ma quel giorno, nella Parigi non del tutto liberata, lei era una semplice cronista rispetto a Ernest Hemingway, che a quarantacinque anni era già  un celebre scrittore, e anche un amante di forti emozioni. Con una bravata degna della sua fama aveva “conquistato” l’Hotel Ritz, mentre i resti della Wermacht e delle SS, e i loro collaboratori francesi, erano ancora nei paraggi, dispersi e disperati, sulle rive della Senna.
Hemingway aveva invitato Helen Kirkpatrick nel grande albergo di piazza Vendà´me, per un pranzo da lui stesso definito storico, vista la situazione. Ma lei rifiutò.
Era arrivata a Parigi con i francesi della Seconda divisione blindata del generale Leclerc, ai quali gli americani avevano ceduto il passo, lasciando a loro l’onore di entrare per primi nella capitale. E quel giorno l’inviata speciale del Daily News, al foie gras e allo champagne promesso da Hemingway, al privilegio mondano di pranzare con una celebrità , preferì le strade di Parigi che il generale Charles de Gaulle doveva attraversare, dall’Arco di Trionfo a Notre-Dame. Cosi Helen Kirkpatrick fu il testimone di un avvenimento eccezionale: un frammento di storia e un racconto esclusivo per il Daily News.
Non era accanto a Hemingway al tavolo del Ritz, ma con il dispaccio telegrafato quel giorno di fine agosto del ‘44 si è poi trovata vicino a lui nelle antologie in cui sono raccolti gli scritti di grandi giornalisti. In quella corrispondenza Helen Kirkpatrick descrive la sparatoria di Notre-Dame, dove ci si appresta a intonare il “Te Deum” di ringraziamento per la liberazione di Parigi. De Gaulle è presente. Incede nella navata centrale, lungo, impettito, lo sguardo puntato sulla volta gotica, quando i proiettili di un cecchino schizzano sulle antiche pietre della cattedrale, sfiorano Helen Kirkpatrick e lo stesso capo della Francia libera che si trova a pochi metri da lei. La gente si ripara, si ammassa dietro le colonne. Soltanto i generali a fianco di de Gaulle non si scompongono, non battono ciglio. Lui, de Gaulle, principale bersaglio della sparatoria, non sembra interessarsi alle pallottole che fischiano ad altezza d’uomo. Helen ammira l’indifferenza. Un generale si stacca dal gruppo, è il generale KÅ“nig che viene a stringerle la mano e le sorride.
Tanti, innumerevoli episodi possono essere evocati per illustrare il vecchio, retorico principio secondo il quale un cronista deve andare “sul posto”. Ricordo quello di Helen Kirkpatrick perché avviene in un momento storico, la liberazione di Parigi, in una cornice solenne, Notre-Dame, e vi figurano personaggi come de Gaulle e indirettamente Hemingway. E non è un episodio che si può definire eroico. È un esempio di zelo professionale esaltato da un dramma imprevisto. Helen Kirkpatrick era un reporter tenace.
Era tenace come la collega Marguerite Higgins, che il generale Walton H. Walker non voleva tra i piedi. Pensava, e non era certo il solo, che un campo di battaglia non fosse un posto per le donne. Marguerite Higgins non gli dette retta e valendosi dell’autorizzazione del generale MacArthur, che contava più di Walker, fu testimone di una battaglia decisiva durante la guerra di Corea. Dieci anni dopo, in Congo, Marguerite Higgins mi ha raccontato come si impose a quel generale («un uomo tozzo con l’espressione di un bulldog»).
Non cito a caso due donne. Essendo a quei tempi piuttosto rare, anzi rarissime, nei luoghi disagiati dove erano in corso conflitti armati, dovevano avere un carattere forte, eccezionale, per farsi valere. Dovevano essere “più croniste”, nella tenacia ed anche nell’avventatezza, dei loro colleghi maschi. Quando dico cronista penso al soldato semplice del giornalismo, il quale è pilastro della libertà  di stampa ed elemento essenziale della società  democratica. Lui cerca, racconta gli avvenimenti alla base dell’informazione di cui l’opinione pubblica si alimenta. La qualità  dei cronisti distingue una buona da una cattiva democrazia: da essa dipende il rapporto quotidiano tra il cittadino e la realtà  in cui è immerso. Il giornalista, del quale il cronista è l’espressione più autentica, decifra quel che accade ogni giorno nel villaggio, nella città , nella nazione, nel mondo. Il suo lavoro impone la presenza sul posto, il contatto diretto con gli avvenimenti, e una conoscenza, una certa familiarità  con l’ambiente. Altrimenti, nella civiltà  delle immagini e di Internet, il filtro televisivo e quello degli strumenti offerti dall’informatica alterano la notizia, la fanno dipendere dai poteri politici o finanziari che controllano o influenzano il labirinto della comunicazione. Un giornalismo senza uomini sul terreno è un giornalismo di seconda categoria, poiché si limita a interpretare sulla base di notizie fornite da altri.
Certo, la guerra è una situazione estrema. È quella che esalta il lavoro del cronista, e che si presta di più a una retorica purtroppo bolsa, spesso al limite della mitomania. Ma bolsi, col fiato corto, insomma sciocchi, sono anche coloro che fanno dell’ironia sul cronista di guerra, ritenendolo superato nel linguaggio e nel comportamento. Grazie a quei corrispondenti, non professionisti ma testimoni della guerra, si è saputo dei massacri in Vietnam, delle torture in Iraq, della ferocia della guerra civile in Siria. E non metto in conto i rischi, che sono il prezzo pagato per avere quelle notizie. Senza i cronisti “sul posto” l’inevitabile propaganda che accompagna gli eserciti non sarebbe stata contraddetta. Non sarebbe emersa, se non tutta almeno in parte, la verità . Questo vale per il cronista che segue la mafia, in tutte le sue versioni. Che insegue la corruzione. Che cerca di ricostruire le tracce del terrorismo. Che ricostruisce il meccanismo di un delitto o di una sciagura. Che cerca di dipanare una situazione politica.
La velocità  delle comunicazioni, il mondo rimpicciolito, il facile accesso alle notizie via Internet rischiano di allontanare il cronista dalla realtà . Si pensa che i corrispondenti permanenti dalle capitali o dalle aree di crisi siano superflui, facilmente sostituibili da reporter d’emergenza. Cosi si perderebbe il patrimonio della conoscenza e dei rapporti acquisito negli anni.
Il rapporto tra giornalismo e potere non è mai stato famoso, asettico, né può esserlo, anche nei paesi più democratici. E ci sono i condizionamenti interni al messaggio giornalistico, favoriti dal fatto di non essere espliciti. L’influenza della cultura, dell’ambiente sociale, il desiderio di compiacere un determinato pubblico, la complicità  stabilita dal linguaggio e tanti pregiudizi, politici e morali, non contribuiscono a quella che chiamiamo comunemente obiettività : qualità  inesistente in una versione integrale. Ai limiti individuali si aggiungono quelli determinati dal carattere istituzionale degli organismi di informazione: dai valori o dagli interessi che rappresentano o difendono. Il pluralismo dei mezzi di informazione garantisce comunque una funzione critica essenziale per la democrazia. La garantisce proprio con i diversi e spesso contraddittori messaggi che diffonde. Ed è il cronista che fornisce la materia prima.
Per l’ostinazione nell’inseguire le notizie, dettata da un orgoglio professionale (nel loro caso anche femminile), Helen Kirkpatrick e Marguerite Higgins hanno espresso in modo esemplare l’essenziale ruolo del reporter: raccontare gli avvenimenti di cui si è stati testimoni il più da vicino possibile. Questo richiede una preparazione, l’improvvisazione non è ammessa. Ma esige anche una curiosità  non inquinata da troppi pregiudizi, capace di cogliere, senza deformarlo, quel frammento di verità  che è il fragile ma l’essenziale bottino.


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