L’accumulazione originaria nella transizione di Grozio

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«Una deviazione rispetto al tipo generale di civiltà  dell’epoca, un caso speciale sotto molti aspetti»: così Johan Huzinga definì «la civiltà  olandese del Seicento» (titolo di un suo celebre libro, tradotto in italiano nel 1967 per i tipi di Einaudi). Fin dalla ribellione contro il dominio spagnolo nel 1566, le «Province unite» furono in effetti teatro di una formidabile espansione (su scala mondiale) della borghesia mercantile, di intense lotte politiche e religiose che fecero da sfondo a una rielaborazione dell’umanesimo rinascimentale e dei suoi ideali repubblicani. Intrecciandosi progressivamente con la «crisi generale» del Seicento europeo, la storia dell’anomalia olandese costituisce un capitolo fondamentale dell’età  della transizione al capitalismo. E mostra la ricchezza di alternative che la caratterizzò, sia sotto il profilo delle forme politiche sia sotto il profilo dei dibattiti sulla «tolleranza» e sul rapporto tra religione e politica – al di sotto dei quali si presentava immediatamente il problema del protagonismo delle masse popolari. La filosofia di Baruch Spinoza ha in questo senso un valore esemplare, ed è stata ampiamente riletta negli ultimi decenni (quantomeno a partire dagli studi di Gilles Deleuze e Toni Negri) proprio nella prospettiva della ricerca di un’alternativa al mainstream del pensiero politico moderno, che negli stessi anni cominciava a organizzarsi attorno all’esperienza dell’assolutismo sovrano.
In un libro da poco uscito (Il diritto naturale dell’appropriazione. Ugo Grozio alle origini del pubblico e del privato, Odoya, pp. 173, 18 euro), Pietro Sebastianelli propone un’originale rivisitazione dell’esperienza olandese dei primi decenni del Seicento attraverso una lettura delle opere di Ugo Grozio (1583-1645). Giurista di grande importanza, Grozio è solitamente considerato il fondatore del moderno giusnaturalismo per l’opera da lui pubblicata nel 1625 nell’esilio francese, il De jure belli ac pacis. Sebastianelli conferma questa lettura consolidata dell’opera maggiore di Grozio: ma ciò che rende preziosa e originale la sua analisi è il rigore con cui si impegna a dimostrare che il giusnaturalismo costituisce per il giurista olandese l’«approdo» di una riflessione che aveva puntato – negli anni precedenti il suo imprigionamento da parte di Maurizio d’Orange nel 1618 – a offrire un fondamento teorico all’«anomalia» olandese, sia per quanto riguarda la rivendicazione della libertà  dei mari (in funzione anti-inglese) sia per quanto riguarda la proposta di una «riforma» delle istituzioni repubblicane (adeguandole alla nuova «costituzione materiale» che aveva preso forma con la rivolta anti-spagnola e con l’accumulazione della ricchezza mercantile). La fitta trama dei rapporti e degli antagonismi tra le forze materiali che scandiscono il ritmo dello sviluppo olandese della prima età  moderna emerge nitidamente, seguendo l’analisi proposta da Sebastianelli, nella filigrana delle argomentazioni giuridiche, politiche e religiose di Grozio. E altrettanto nitidamente, la crisi politica del 1617-1619 (con il «colpo di stato di matrice monarchica del 1618» di Maurizio d’Orange) è per Grozio il punto di rottura di quei rapporti e di quegli antagonismi. È, scrive Sebastianelli, «la fine del sogno rinascimentale» che aveva animato la sua riflessione giovanile.
L’opera matura di Grozio costituisce, su queste basi, l’elaborazione di una «sconfitta», il documento di un’appassionata e «realistica» riflessione (che anticipa decisamente i tempi) sulla fine dell’anomalia olandese. Il giusnaturalismo appare infatti a Sebastianelli, sulla base di una consolidata tradizione storiografica, interamente costruito su quella separazione tra la società  mercantile e la sovranità  dello Stato che la repubblica olandese aveva cercato di evitare. La piena fondazione del moderno concetto di proprietà  privata trova nell’autonomia e nella trascendenza del potere «pubblico» la propria garanzia, mentre l’azione di disciplinamento del governo assicura quotidianamente la «formazione» dei soggetti docili e obbedienti che entrano in relazione attraverso l’istituto del contratto. Il Grozio del De jure belli ac pacis, nell’interpretazione di Sebastianelli, appare decisamente più «moderno» di quanto non ritengano altri interpreti, che sottolineano piuttosto i retaggi «medievali» della sua teoria. Ma la sua modernità , intesa come adesione al modello dello Stato territoriale in formazione e dell’individualismo proprietario, reca appunto le tracce di una sconfitta: è in fondo una modernità  velata di malinconia quella che Sebastianelli ci consegna.
«Autore di transizione», Grozio si è confrontato con un’«assoluta contingenza storica», si è immerso in una costellazione di forze materiali in cui la tensione verso il nuovo cozzava quotidianamente con tenaci resistenze e spinte alla conservazione. A fronte di quella che Marx ha definito «la cosiddetta accumulazione originaria del capitale», ha offerto già  in gioventù essenziali argomenti teorici per giustificare la violenza delle «recinzioni» delle terre comuni (ponendo in particolare l’«occupazione» all’origine della proprietà  privata). La crisi della repubblica, immaginata da Grozio come «sintesi virtuosa tra bene individuale e bene comune», è anche determinata dalla sua incapacità  di «contenere» e mediare la violenza dell’«accumulazione originaria»: il movimento di separazione dei produttori dai mezzi di produzione avviato dalle recinzioni delle terre comuni e la traduzione giuridica del «possesso» in «proprietà  privata» finiscono per imporre un simmetrico movimento di separazione dello Stato dalla società  mercantile, l’affermazione della sua sovranità . Il libro di Sebastianelli ci consente di seguire questi movimenti genetici di separazione, di cogliere la ricca trama delle alternative che li hanno accompagnati, di portare alla luce le tensioni, le lotte e la violenza che continuano a vivere nella loro filigrana.


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