La sconfitta dei comunicatori
In teoria, Renzi e Bersani sono due casi da antologia di come si deve e non si deve comunicare. Matteo Renzi è il candidato mediatico perfetto. Bello, giovane, seduttivo e allenato da nugoli di super esperti all’arte di modellare gesti, tempi, linguaggi e temi della campagna elettorale secondo il celebre motto di McLuhan “il mezzo è il messaggio”. Pierluigi Bersani è al contrario la negazione stessa del comunicatore. Quasi sempre a disagio nei dibattiti, tanto da apparire quasi arcigno, incapace di esalare un sorriso neppure il giorno della vittoria, impacciato nell’uso dei nuovi media. E allora, come si spiega il risultato?
Bisogna anzitutto sfatare la leggenda metropolitana del Renzi bravo comunicatore attorniato da esperti infallibili. La verità è che il sindaco di Firenze non solo ha sbagliato la comunicazione delle primarie, ma l’ha sbagliata in modo clamoroso e quasi dilettantesco, nell’ansia di seguire i pessimi consigli degli esperti. Intendiamoci, Giorgio Gori è un grande professionista della televisione, forse il migliore in Italia. Ma la sua professione è altra. Vendere prodotti accattivanti e patinati alla grande e indistinta platea della tv generalista. I tre milioni di votanti delle primarie non sono un’audience generalista, non le assomigliano neppure alla lontana e detestano essere trattati come tale. Costituiscono una comunità con valori forti condivisi, di sinistra assai più che di centrosinistra, fra i quali si conta un acceso antiberlusconismo. Per questo tipo di clienti il prodotto del “rottamatore” che piace anche alla destra si è rivelato del tutto sbagliato e fuori target. Chi conosce il sindaco di Firenze sa quanto sia ingiusta e limitativa l’immagine di uomo di destra dentro la sinistra. Infatti fra chi lo conosce meglio, fiorentini e toscani, Renzi ha sempre raccolto molti consensi anche nell’elettorato più radicale. L’averlo costretto a non dire mai nulla di sinistra, a non pronunciare neppure la parola “destra” e a concentrare tutto sull’unico tema impolitico della rottamazione è stata una scelta catastrofica. La campagna di Renzi è in realtà finita il giorno in cui Walter Veltroni ha annunciato che non si sarebbe candidato. Anzi, il giorno dopo, quando anche Massimo D’Alema ha annunciato il ritiro. Finché gli esponenti della nomenklatura di partito davano un’intervista al giorno di sostegno a Bersani, i consensi di Renzi crescevano in parallelo. Quando D’Alema ha deciso d’immolarsi alla causa come un bonzo, bruciando nel falò sé stesso e l’unico argomento dell’avversario di Bersani, non c’è stata più partita. In quel-l’istante nel film di Matteo Renzi detto l’Americano è comparsa la scritta “The end” e i titoli di coda, con largo anticipo sulla reale conclusione della storia.
È stato lo stesso Renzi a fornire la prova a posteriori di quanto fosse stata sbagliata la campagna. Sconfitto e finalmente liberato dal circolo degli esperti, il sindaco si è congedato con un discorso alto, sincero, coraggioso, molto “di sinistra”. Se avesse aggiustato il tiro un mese prima e non il giorno dopo la sconfitta, magari avrebbe vinto lui.
Ora basta rovesciare tutti gli argomenti in positivo per capire quanto sia stata intelligente e ben calibrata la campagna per le primarie di Pierluigi Bersani. Il segretario è stato perfetto nell’usare l’unica strategia nella quale la sinistra italiana abbia dimostrato di eccellere, il gioco di rimessa. Ha sfruttato al meglio tutti gli errori dell’avversario e un’esperienza di gran lunga superiore nella conoscenza diretta e profonda del popolo di sinistra. Ma il tratto davvero geniale di Bersani, il primo esponente della gerarchia al comando a vincere le primarie, è stato di aver fatto apparire l’avversario, in teoria l’outsider, come il vero favorito, idolo dei salotti mediatici e dei famosi poteri forti, avvantaggiato nei mezzi a disposizione e vezzeggiato dalla stampa anche di destra. Tanto che viene da domandarsi come farà oggi Bersani senza Renzi. Perché è chiaro che il trentasettenne Renzi non ha certo bisogno di un Bersani per conquistare prima o poi la leadership che ha dimostrato di meritare. Mentre per Bersani l’uscita di scena dell’avversario è una tragedia. La scelta migliore che potrebbe fare il vincitore è di tenerselo stretto nelle prossime battaglie, dentro e fuori il partito. Dentro, perché c’è il rischio, già visibile nei commenti del dopo partita, che la vecchia nomenklatura interpreti la vittoria di Bersani come un proprio successo e una sconfitta del cambiamento. Quando sarebbe tanto utile a Bersani e al centrosinistra se D’Alema e compagni si avviassero sul serio a una serena pensione. Ancora di più c’è bisogno di Renzi per la battaglia che Bersani dovrà combattere fuori dal partito. Quella di governare da sinistra un Paese che era e rimane nella sostanza di destra. Con una solida maggioranza di ceto medio, al netto delle chiacchiere demagogiche, da sempre terrorizzata di fronte al cambiamento e ostile alle riforme. Non per vincere le elezioni, ma per convincere e governare un paese come questo, l’esperto trionfatore di oggi ha molto da imparare dal giovane sconfitto.
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