La palude della tecnocrazia

by Sergio Segio | 29 Dicembre 2012 10:23

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Come renderà  utile il prolungamento di quella esperienza di governo da lui richiesto ieri? Sono queste, crediamo, le domande fondamentali da porsi nel giudicare la scelta del presidente del Consiglio di cimentarsi nella competizione elettorale. Sono quesiti molto più importanti di quelli in questi giorni ricorrenti sul metodo seguito da Monti nel presentare questa sua scelta.
Non c’è infatti, in questo gesto, alcuna innovazione sul piano del metodo. Non è la prima volta che un tecnico al termine del suo mandato si fa politico. Né è la prima volta che viene presentato un programma elettorale generico per tenersi le mani libere dopo il voto. Il documento “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa” non sfugge a questa tradizione. C’è un lungo elenco di piani ancora tutti da scrivere, dall’Agenda digitale italiana alla Strategia energetica nazionale, dal Piano di gestione integrata delle acque al Piano strategico per il turismo al Piano per l’occupazione giovanile. Come dire, dateci carta bianca (il grande piano da scrivere). Al resto ci penseremo noi dopo le elezioni. Scelta comprensibile a questo stadio, ma allora forse meglio non fingere di «parlare il linguaggio della verità  senza nascondere i problemi sotto il tappeto, proponendo soluzioni difficili».
Tornando al quesito principale, ci sono tre aspetti su cui si è bloccata l’azione del governo Monti. Il primo è quello dell’assenza di una politica di bilancio. Il secondo è quello delle maggioranze parlamentari. Il terzo è quello della macchina dello Stato, della tecnocrazia. Vediamoli uno per uno.
L’iter della legge di Stabilità , assaltata dal Parlamento, ci ha dato una misura eloquente del primo problema. Avendo scelto di tenere i saldi invariati, il governo poteva limitarsi a presentare una legge snella (come peraltro previsto dalla legge di contabilità ), limitata alla sua parte tabellare, chiedendone l’approvazione, come tale, da parlamentari a fine mandato e quindi presumibilmente ansiosi di dare un contentino ai loro bacini elettorali. Invece il governo ha aperto le danze sostenendo che ogni modifica del Parlamento era legittima purché non alterasse i saldi. A questo è seguito l’assalto alla diligenza con una manovra che alla fine muove 30 miliardi di euro senza che il governo batta ciglio. Di questo episodio preoccupa soprattutto la filosofia. Il governo che verrà  potrà  fare ben poco nel variare i saldi di finanza pubblica: il sentiero è stato già  definito a livello europeo e non mancheranno i mercati di farcelo presente. Chi si propone di abbassare le tasse, dovrebbe fare riforme a costo zero se non negativo (con risparmi) per le casse dello Stato, avendo tutt’al più progetti su come cambiare la composizione della spesa e del gettito, anziché abdicare alla responsabilità  di fare politica di bilancio, lasciando di fatto mano libera al Parlamento. Sarebbe stato bello vedere l’agenda porre rimedio a questo errore nell’agito
prefigurando come dovrà  essere il bilancio del 2018. Bene capire quale è la visione dell’agenda su quale potrà  essere la quota di spesa per l’istruzione e l’ambiente a fine legislatura. E quanto conterà  l’Irpef rispetto all’Imu o altre imposte patrimoniali. Così purtroppo non è.
Come sottolineato dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno, il suo governo ha trovato al contempo croce e delizia nell’anomala maggioranza su cui si basava. L’ABC (Alfano-Bersani-Casini) garantiva di superare gli steccati ideologici che spesso hanno impedito le riforme, ma si reggeva su di un equilibrio molto fragile, perché tutti avevano incentivi a smarcarsi, come ha poi fatto, a inizio dicembre, il primo dei tre. Quella maggioranza anomala ha retto per un anno anche perché la principale forza di opposizione, quella che poteva cavalcare le proteste contro le scelte impopolari del governo, la Lega, si era messa fuori gioco con le sue stesse mani. Non sarà  così nel prossimo Parlamento. Per questo è comprensibile la scelta di Monti di dotarsi di un gruppo parlamentare di riferimento, in grado di superare steccati di natura ideologica. L’agenda in verità  arriva un po’ tardi per far emergere “i cespugli di riformismo” presenti lungo tutto l’arco costituzionale e si limita a escludere le frange estreme dichiarando di voler tenere l’Imu e la riforma delle pensioni. Il rischio di strumentalizzazioni della credibilità  personale del presidente del Consiglio è molto forte. Il fatto che non sia riuscito a imporre una sola lista alla Camera non è un buon sintomo. Vedremo se riuscirà  davvero a imporre criteri (oltre che nomi) per la scelta dei candidati.
Un altro modo per l’agenda di andare oltre l’agito può essere nel rimediare all’errore compiuto delegando alla classe politica il compito di autoriformarsi. Anche perché la mancata riforma della legge elettorale aumenta il rischio che l’iniziativa politica di Monti aumenti l’instabilità : più alta oggi rispetto a ieri la probabilità  di avere due maggioranze diverse alla Camera e al Senato. L’agenda dichiara che “il primo atto del nuovo Parlamento deve essere la riforma della legge elettorale, così da restituire ai cittadini la scelta effettiva dei governi e dei componenti delle Camere”. Questo fa pensare a un sistema elettorale dove le coalizioni si formano
ex ante, non dopo il voto. Significa un sistema proporzionale con premi al partito o alla coalizione vincente, oppure un sistema maggioritario a un turno o più turni. Trattandosi del programma dei primi 100 giorni, bene chiarire subito se si vuole tenere in piedi il Porcellum, magari con piccoli aggiustamenti al margine (tipo preferenze), o, come speriamo, andare oltre. Bene farlo ora a costo di scontentare qualcuno, che trovarsi poi senza poter davvero cambiare le regole stando ben lontani dalle elezioni successive.
Infine, il governo Monti è stato bloccato nella sua azione riformatrice dalla macchina dello Stato, dalla tecnocrazia. Cosa spiega gli errori nella vicenda esodati? E la scelta di tenere in piedi i ricongiungimenti onerosi? Cosa ha impedito, ancora, al governo di varare la legge annuale sulla Concorrenza di cui parla l’Agenda? Era stata richiesta a gran voce da Catricalà  quando era presidente dell’Autorità  garante della concorrenza e dei mercati, e allora perché non è stata attuata con Catricalà  segretario del Consiglio dei ministri? Ancora, perché non è stato raccolto l’invito dell’Antitrust a rendere operativa l’Autorità  sui trasporti nominandone i vertici con puro atto amministrativo, senza bisogno di ingolfare ulteriormente i lavori del Parlamento? Non c’è traccia nel documento di una riforma della pubblica amministrazione e di nuove regole sulle nomine e sulle carriere dell’alta dirigenza dello Stato. Al contrario, si creano nuovi centri di potere per la tecnocrazia, come il Fondo per le ristrutturazioni industriali. Il termine “fondo” ha un che di sinistro quando si parla di ristrutturazioni perché richiama soldi dati dai contribuenti per salvare imprese in crisi. Speriamo che non sia la nuova versione del Fondo strategico italiano, che avevamo capito dovesse intervenire solo per lanciare nuove imprese e progetti piuttosto che per prolungare la vita di imprese decotte. Speriamo soprattutto che il nuovo fondo non serva a finanziare un nuovo salvataggio di Alitalia, magari uccidendo ogni concorrenza sulla Milano-Roma e affidando questo compito a chi se ne intende di binari, ma non sa nulla di traffico aereo. I presupposti, nel senso di capicordata di allora poi scesi in campo e designati, a quanto pare, a fare il 24 febbraio da capolista, ci sono tutti.

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