La Madre Terra diventa arte

by Sergio Segio | 27 Dicembre 2012 10:51

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GINEVRA. Silenzi, sorrisi e tramonti accompagnano la circolarità  della storia: la ragazzina che mangia un mango e pianta il seme nella terra del suo villaggio di paglia e fango in Africa Occidentale. Il seme germoglia, la piantina cresce come la ragazzina che se ne prende cura. Spuntano le foglie e lei sorride; la piantina diventa albero come lei diventa donna, poi madre. Una nuova bambina mangerà  il frutto dell’albero piantato da sua madre. à‰ il rassicurante ciclo della vita con il suo potere illimitato su spazio e tempo, così come lo racconta in una manciata di minuti il cineasta burkinabé Idrissa Ouedraogo. La mangue (2008) è un cortometraggio realizzato nel 2008 per Art for The World, Ong fondata da Adelina von Fà¼rstenberg associata al Dipartimento di Informazione Pubblica dell’Onu, il cui progetto più recente è la mostra Food, a cura della stessa von Fà¼rstenberg. Una collettiva complessa che, in questa prima tappa espositiva (fino al 24 febbraio 2013) – a cui seguiranno prima dell’Expo di Milano 2015 la mostra allo Spazio Oberdan di Milano, al Sesc di San Paolo del Brasile e il MuCEM di Marsiglia – presenta i lavori di 34 tra artisti e filmmaker internazionali che dialogano con gli antichi vetri veneziani, le porcellane di Meissen, i biscuit francesi, le maioliche di Faenza e le creazioni contemporanee, tra cui le ceramiche policrome di Betty Woodman, coinvolgendo nella sua totalità  il Musée Ariana.
Con la stessa intensità , ma con implicazioni diverse, un’altra donna è intenta ad accettare la sfida, mettendosi alla prova mangiando una cipolla: Marina Abramovic nel noto video The Onion (1996). Una dichiarazione di resistenza fisica e psicologica, ma anche di vulnerabilità  quando la stessa voce dell’artista recita come una litania le stanchezze del vivere quotidiano: «Sono stanca di cambiare aerei così spesso. Di aspettare nelle sale d’attesa, nelle stazioni degli autobus, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti…», ma anche; «Sono stanca di innamorarmi sempre dell’uomo sbagliato». 
L’arte, con tutte le sue potenzialità  espressive, è chiamata a riflettere su tematiche legate alla Madre Terra, all’agricoltura e alla nutrizione, così come recita il sottotitolo della mostra Food. Una riflessione che ha come punto di partenza il lavoro storicizzato di artisti come Joseph Beuys, Dieter Roth, Daniel Spoerri ma soprattutto Marcel Broodthaers, che la curatrice considera maestri. Tra le opere di Broodthaers è presente anche La soupe de Daguerre (1975), serie di 12 fotografie a colori che riproducono pomodori, sedano, cipolla, pesci.
A proposito di pomodori, come ricorda la stessa curatrice, Antonin Artaud sosteneva che «La preparazione di un semplice pomodoro è molto più difficile della soluzione del problema dell’infinito di Dio». Ma non è solo questione di quantità  e dosaggi, fare arte vuol dire anche mescolare, mantecare, lievitare e lasciar riposare, magari prevedendo anche un pizzico d’improvvisazione, così com’è nella vita. 
Benché veda l’utilizzo di materie prime come uova (Anna Maria Maiolino, Entrevidas (Between Lives), 1981-2012), cocco (Marcello Maloberti, La voglia matta, 2012), semi di girasole (Jannis Kounellis, Senza titolo, 1968), fragole e cioccolata (Vivianne van Singer, Envies, le voglie delle madri, 2012), fagioli (Ernesto Neto, Variation on Color Seed Space Time Love, 2009 e Miralda, Reserva natural, 2002-2012) e cereali (Meret Oppenheim, Fleur Bluemay-Ode, 1969), Food non è una mostra gastronomica. 
Certo, sentiamo l’odore del pane appena sfornato dell’installazione Luz dentro de Pan (2011) di Los Carpinteros con i pani circolari forati all’interno in cui è inserita una luce. Analogamente percepiamo il profumo (solo apparentemente tranquillizzante) dei biscotti nella casetta costruita da Liliana Moro nella hall del museo (le finestre sono decorate con gelatine colorate): il riferimento di Dumme Gans è la favola-incubo di Hansel e Gretel con i suoi risvolti ambigui e terrificanti. C’è il tranello dell’apparenza, la minaccia di una fine orribile, la spirale della morte violenta della strega senza la quale il lieto fine non sarebbe tale. 
Il pane associato al sale e al coltello è l’elemento con cui Mircea Cantor costruisce la sua installazione disponendo su un tavolo rotondo le baguette attraversate dal coltello che sembrano tanti uccelli migratori. La metafora, sottintesa nel titolo stesso Stranieri (2011), implica la difficile condizione del forestiero in un paese che non è il proprio e che può contemplare sofferenza e dolore: il pane è la carne, mentre il sale è il sangue. 
Ironica e tutt’altro che noir la poetica di Miralda con i suoi teschi realizzati con fagioli provenienti da diverse aree geografiche del globo e allineati in una teca di vetro. Alle pareti di Reserva natural c’è il tessuto africano «wax printed», che ha come elemento decorativo l’immagine reiterata della sega: un’iconografia esplicita rafforzata dalla presenza di un tappeto di segatura. Il futuro dell’umanità  è proprio in quei legumi, alimenti sani e nutritivi. 
Quanto alle tracce di caffè sono visibili nelle tazzine usate e appese in un ipotetico cyber café, costruito per l’occasione da Nari Ward: alle pareti anche Goodbadugly (2012) che vede l’impiego di schede madri sul legno dei pannelli. In questo TranStranger Café (2012) non mancano le postazioni internet perfettamente funzionanti. Un luogo virtuale, quindi, in cui la comunicazione passa attraverso l’immaginazione e, paradossalmente, l’incontro dal vivo è un elemento del tutto superfluo. Tuttavia, la presenza reale delle tazzine con il loro residuo di contenuto, tra circuiti e corto circuiti, non può non evocare anche un altro tipo di conoscenza: la lettura dei fondi del caffè.
Inquadra la ritualità  del gesto, infine, il fotografo indiano Raghubir Singh, riconosciuto maestro nell’uso del colore, puntando l’obiettivo sui movimenti delle mani che portano, offrono, dispongono cibi. In questi suoi scatti degli anni ’90 vediamo le mani delle donne di Chennai con il riso, le mani del venditore d’acqua di Delhi, la mano che inclina il bollitore d’alluminio per far scivolare il tè nella tazza in un mercato di Mumbai. «Una mano aperta per ricevere e donare», come insegna Le Corbusier.

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