La linea del Colle: tempi rapidi e (forse) un discorso al Paese
ROMA — Meno di venti minuti per chiudere un’avventura durata 401 giorni. Un faccia a faccia brevissimo e ormai senza possibilità di sorprese, per formalizzare le dimissioni «nella mani del presidente della Repubblica», come recita con solennità barocca la formula di quando ci si assume o si declina un impegno pubblico. Una stretta di mano che valeva come presa d’atto, la sigla su alcuni documenti e infine poche parole per concordare la road map lungo la quale approderemo al voto anticipato, il prossimo 24 febbraio. Per la prima volta in pieno inverno. Strane elezioni, insomma, dopo che è implosa una maggioranza altrettanto strana.
È andato così, sul filo di una visibile amarezza, l’incontro di ieri sera al Quirinale tra Mario Monti e Giorgio Napolitano. Il premier resterà in carica «per il disbrigo degli affari correnti», mentre già stamane il capo dello Stato perfezionerà questo passaggio istituzionale con consultazioni-lampo (concentrate tra le 10 e le 13) dei capigruppi parlamentari, cui aggiungerà nel pomeriggio due rapidi colloqui con i presidenti di Palazzo Madama e Montecitorio per sentirne i «pareri», come prevede la Costituzione. Dopo di che, forse già entro sera, decreterà lo scioglimento delle Camere. Magari accompagnando la firma con un discorso al Paese.
Un epilogo che il presidente della Repubblica si augurava diverso. Cioè non traumatico, non disordinato e convulso e carico di polemiche. Lo immaginava, soprattutto, a scadenza naturale. In modo che fosse il suo successore sul Colle ad assumersi la responsabilità di gestire la fase politica che si aprirà dopo le elezioni e di scegliere a chi affidare l’incarico di formare l’esecutivo. Una figura con la quale il nuovo inquilino del Quirinale dovrà collaborare. Invece, «mio malgrado», come ha tenuto a precisare quando Monti ha preannunciato le dimissioni, l’8 dicembre, quel compito — impegnativo per un futuro che sarà amministrato da altri — toccherà a lui.
Non è l’unico inconveniente, dal punto di vista di Napolitano, di questa «interruzione in extremis della legislatura». Infatti, lo showdown del Pdl che ha spodestato anzitempo il premier tecnico lascia inevasi alcuni provvedimenti importanti cui il capo dello Stato teneva e lo ha costretto ad accettare un percorso che avrebbe potuto essere diverso. Si è ad esempio discusso e polemizzato sul fatto che la crisi avrebbe dovuto essere parlamentarizzata e Monti sfiduciato in aula, in coerenza con il principio costituzionale secondo cui ogni governo nasce e muore in Parlamento. Con il sottinteso che il Quirinale avrebbe dovuto rispedirlo alle Camere per un dibattito e un voto su di sé. Ora, andando a ritroso nella storia repubblicana, si vede che questo non accade mai e che le crisi sono state sempre extraparlamentari (tranne la doppia eccezione di Prodi, che aveva sfidato la propria coalizione in una «conta», sapendo in partenza di perdere).
Di solito, quando dal confronto in aula risulta evidente che la maggioranza non c’è più, i presidenti del Consiglio scelgono di evitare l’onta della sfiducia e sospendono il dibattito, comunicando che saliranno subito dal capo dello Stato a dimettersi. Stavolta, dopo che il segretario del Pdl Alfano ha definito «conclusa l’esperienza Monti» (ciò che valeva come il voto di sfiducia da parte del maggior partito della maggioranza), al premier non restavano altre opzioni che annunciare il suo abbandono. Posticipato di qualche giorno, soltanto per varare l’indispensabile legge di Stabilità .
Qualcuno ieri ha obiettato sulle consultazioni che terrà oggi Napolitano, definendole un inutile rito, una «fictio», un modo per ottenere dai partiti una sorta di conforto politico a uno scioglimento comunque inevitabile. Letture che non tengono conto di come l’obbligata verifica del presidente (sia pure a tempo già quasi scaduto) in qualche modo sostituisce il responso dell’Aula.
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