by Sergio Segio | 19 Dicembre 2012 8:09
Il 16 ottobre si è consegnata alle autorità che le avevano intimato di comparire in tribunale per un episodio del 2006, quando aveva guidato la protesta dei braccianti di un certo villaggio che chiedevano i pagamenti loro dovuti nel quadro di un programma di «lavoro garantito» rurale. Tre giorni dopo il tribunale ha disposto il suo rilascio su cauzione, ma frattanto la polizia le aveva appioppato un’altra incriminazione, questa volta per fatti di questi ultimi mesi: aver guidato gli abitanti di un altro villaggio, a pochi chilometri dalla capitale statale Ranchi, che il 15 agosto sono andati a dissodare e piantare riso su terre requisite dal governo. La vicenda del villaggio di Nagri è uno dei mille casi di acquisizione di terre che provocano proteste e polemiche in India: qui si tratta di 91 ettari di terra coltivata, che il governo del Jharkhand ha requisito per espandere i campus di tre istituzioni universitarie, cacciando via però 600 famiglie «tribali» che si andranno ad aggiungere alle centinaia di migliaia di famiglie cacciate dalla terra e di solito parcheggiare in qualche slum. L’anno scorso i bulldozer erano entrati nelle terre di Nagri per recintarle devastando le risaie che erano pronte per il raccolto.
La battaglia di Nagri non è la prima che veda Dayamani Barla come protagonista. Dayamani è una donna energica, sulla quarantina, che ho incontrato a Ranchi un anno fa. Nata in una famiglia «tribale» (così sono chiamati i nativi, in India), ha fatto la domestica per potersi pagare gli studi dopo che al padre era stata sottratta la terra di cui viveva. Diplomata, ha scritto per alcuni giornali locali diventando una «cronista popolare».
Alla fine degli anni ’90 è tornata nel suo distretto per partecipare alla battaglia contro il progetto di due dighe sui fiumi Koel e Karo, che avrebbe sommerso decine di villaggi e cancellato la sopravvivenza di migliaia di persone: la rivolta contro il Koel Karo Project ha avuto molta risonanza perché è stato uno dei primi movimenti di massa che portavano alla ribalta la questione degli sfollati ambientali in questa zona dell’India – e anche perché è stato vittorioso, dato che il progetto è stato poi sospeso. Dayamani Barla ne fu protagonista e da allora è riconosciuta come una leader popolare. Nel 2005è stata protagonista di un altro movimento, quello contro una grande acciaieria progettata da Arcelor-Mittal (12mila acri di terra, 70mila persone da 45 villaggi destinate a sfollare). Nel frattempo ha sempre continuato a scrivere, ormai guardata con attenzione anche dai media nazionali in inglese. Ma ha continuato a vivere con una minuscola rivendita popolare di tè, acquistata vent’anni fa con i primi guadagni : «Per essere indipendente», mi aveva spiegato, seduta a un tavolo del suo tea shop (ora gestito dal marito Nelson). «Certo che vogliamo lo sviluppo», diceva: «Ma vogliamo che sia per tutti. Quanta gente è stata costretta a sfollare in nome dello sviluppo, dall’indipendenza a oggi?» Non si tratta solo di risarcimenti e soldi, spiegava, perché gli sfollati restano senza terra, inserimento sociale, cultura, legami. Dal carcere ha scritto ai suoi compagni di battaglia che non si arrenderà : «Protestare negli interessi e per i diritti della nostra gente è nostra responsabilità ».
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