by Sergio Segio | 20 Dicembre 2012 7:33
Da alcune punzecchiature indirizzate a Palazzo Chigi dai settori del Pd vicini a Massimo D’Alema, si indovina una polemica in fieri: soprattutto se Monti dovesse assumere un profilo troppo netto di non candidato-candidato. L’ipotesi che guidi l’Italia alle elezioni da Palazzo Chigi mentre alcuni partiti sono schierati per lui, si fa notare, gli farebbe perdere quella terzietà ritenuta necessaria per garantire tutti.
Pier Ferdinando Casini lo difende a spada tratta. Sostiene che Monti ha sempre dato prova di un «galateo istituzionale» al di sopra di ogni sospetto; e che dunque il problema non si porrà . Eppure si tratta di una potenziale critica gonfia di insidie, che per ora affiora solo a sinistra; ma potrebbe diventare un’arma condivisa anche dal Pdl, per delegittimare in modo strumentale il presidente del Consiglio e lo schieramento centrista suo sostenitore e alleato. A sentire il leader dell’Udc, che ieri ha incontrato il premier a Palazzo Chigi assieme agli altri vertici dell’area centrista, da Luca di Montezemolo di Italia Futura al ministro Andrea Riccardi, non c’è nulla di deciso.
Sarà Monti, si schermisce Casini, a spiegare che cosa intende fare. Ma l’insistenza di Berlusconi sulla necessità di votare solo i partiti maggiori svela il timore che i «montiani» tolgano voti moderati al centrodestra. E si somma al tentativo di bloccare la diaspora del proprio partito, dato in leggera ripresa ma perdente in tutti i sondaggi. Dalla prudenza di alcuni dei parlamentari tentati di lasciare il Pdl, il pericolo appare parzialmente arginato. Il presidente del Senato, Renato Schifani, annuncia che rientrerà nei ranghi «in punta di piedi»: è un segnale. Certamente, le parole d’ordine antieuropee dell’ex premier acuiscono le perplessità di personaggi come l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Eppure non è scontato che provocheranno la rottura.
Berlusconi da una parte giura di puntare alla vittoria; dall’altra lusinga i possibili transfughi promettendo incarichi e posti sicuri in lista. Ma il problema è l’elettorato, non la nomenklatura. E un tema dirimente rimane quello della candidatura a Palazzo Chigi: soprattutto per rifare l’alleanza con la Lega. Il partito di Roberto Maroni ritiene che l’unica vera utilità di un nuovo «asse del Nord» sia la conquista della regione Lombardia, che vorrebbe guidare lui. La candidatura di Gabriele Albertini, però, sostenuto dall’Udc di Pier Ferdinando Casini e schierato con Monti, rappresenta un ostacolo per le ambizioni del Carroccio. A oggi, la prospettiva verosimile è che la divisione dello schieramento di centrodestra possa favorire Umberto Ambrosoli, indicato dal Pd.
E la possibilità che Berlusconi ottenga il ritiro di Albertini è vicina allo zero. Questo irrigidisce un Carroccio che faticherebbe a spiegare alla propria base le ragioni dell’appoggio alla ricandidatura del Cavaliere; e che non risolverebbe i propri problemi interni imponendo il «via libera» di Berlusconi per Alfano. La soluzione andrà trovata entro venerdì, avverte Maroni. In apparenza è nebbia fitta. E la confusione è tale che è girata perfino la voce poco praticabile di una sorta di «ticket»: Berlusconi affiancato da un leghista, magari il sindaco di Verona, Flavio Tosi, «maroniano» di stretta osservanza. Sarebbe un modo, si spiega, per accontentare sia la base del Carroccio che il Pdl. Ma la legge elettorale non sembra permetterlo. L’unica cosa che si capisce è che l’«asse del Nord», se davvero rinasce, è pronto a scagliarsi contro l’Europa e contro Monti.
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