ILVA, IL DIRITTO SOSPESO

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A Taranto e poi a Genova e a Novi e così via. Stamattina l’azienda comunica ai sindacati le decisioni cui la giudice l’ha “sorprendentemente costretta”. Ma no! Si sapeva che la giudice Patrizia Todisco avrebbe confermato il sequestro del materiale prodotto illegalmente dall’Ilva, come le chiedeva di fare la Procura tarantina. La sorpresa è finta. Questa volta gli avversari sentivano di avere una carta in più nella lunga partita per far passare la signora giudice come fondamentalista: in missione per conto di qualcosa di estraneo al codice. C’erano — ci sono ancora — un milione settecentomila tonnellate di prodotti giacenti sulle banchine in attesa di essere smerciati a clienti o forniti alle altre lavorazioni in Italia e fuori: il buon senso stava per intero dalla parte dell’autorizzazione a usare quei prodotti, che oltretutto andavano sgomberati perché la produzione andasse avanti. Si è letto che il miliardo di valore attribuito a quei prodotti sarebbe andato (promuovendolo da lordo a netto, e altruista) alla auspicata bonifica. Dunque fuori da Taranto lo scandalo contro il puntiglio della signora Todisco ha fatto dei passi avanti.
A Taranto no, perché il decreto, già  costituzionalmente dubbio, era apparso ai cittadini e a molti lavoratori come un cedimento al Pil e alle esigenze produttive a scapito del primato della salute. Anche perché il decreto vanta l’osservanza di un’Aia rafforzata e delle prescrizioni della magistratura, ma è oscuro sul quando e da dove arriveranno i moltissimi soldi necessari alla mitica bonifica. Il decreto si era anche dimenticato che un governo, e un parlamento, può dettare legge, ma non retroattivamente, dunque non poteva “ripulire” il materiale prodotto in violazione della legge. A ridosso del pronunciamento della giudice, erano già  pronte le mosse da copione. L’azienda ha annunciato di lasciare a casa “a cascata” — una colata continua — migliaia di lavoratori a Taranto e altrove. Il governo, e per lui il fervido ministro Clini, ha annunciato un emendamento che, “interpretando autenticamente” il decreto, dissequestrasse i prodotti in attesa. Ora, se una duttilità  e una capacità  di disarmo unilaterale è il vantaggio della politica nei confronti della magistratura, trasformare per emendamento un corpo di reato in prodotto commerciabile equivale a liquidare l’autonomia della magistratura e prima della legge. Si invoca ancora una volta uno stato di necessità , avvalorata dal buon senso. Gli innumerevoli stati di necessità  demoliscono lo stato di diritto. Quando un’istanza ulteriore desse ragione al tribunale tarantino, quei corpi di reato sarebbero fusi. Intanto, il conflitto di attribuzione sta per essere sollevato dai magistrati tarantini, e anche questo era scontato. Di Patrizia Todisco si dice che “non guarda in faccia nessuno”. Ho pensato a questo modo di dire. Vorrebbe essere una parafrasi, solo più severa, del motto: “La legge è uguale per tutti”. Com’è noto, non tutti sono uguali per la legge. Quel “non guardare in faccia nessuno” viene sempre e solo interpretato come una equanime inflessibilità  nei confronti dei potenti. Non si immagina che riguardi le facce dei poveracci. Ieri in quel tribunale di Taranto è stata pronunciata la sentenza di primo grado per la morte di un lavoratore.
Antonio Mingolla, vicecapocantiere di una società  di manutenzione all’Ilva, si sobbarcò un lavoro che sapeva pericoloso il 18 aprile del 2006 e fu ucciso dalle esalazioni di gas: due suoi compagni rischiarono la vita per soccorrerlo.
Era la quarantaduesima vittima delle 46 fra il 1995 e oggi. Ieri 6 fra tecnici e capireparto dell’Ilva e della ditta — gli alti dirigenti erano rimasti fuori — sono stati condannati a due anni. Non andranno in carcere, e non era quello il punto: ma, sia pure con un ritardo oltraggioso, la sentenza dice che sicurezza e salute, in fabbrica e fuori, non possono essere sacrificate impunemente.


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