IL VOLTO LEGGERO DEL PROFETA HERZL

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Ero seduto accanto a Renata Colorni e non abbiamo potuto fare a meno di ridere, pensando che il nostro sovrano avrebbe fatto meglio a dimostrare la sua simpatia per l’ebraismo non firmando le abominevoli leggi razziali.
In ogni caso, l’attenzione riservata allora a Herzl dal re d’Italia come dal pontefice Pio X dimostra il suo eminente ruolo politico. Herzl, già  allora, non era solo l’autore di testi teatrali in cui la denuncia dell’antisemitismo si fonde con quella delle inique condizioni degli operai (Il nuovo Ghetto, 1894) e di corrispondenze per il grande giornale liberale viennese, la «Neue Freie Presse», fra le quali fondamentali servizi sull’infame processo a Dreyfus. Questo poliglotta ebreo di Budapest divenuto per così dire viennese, affamato di successo, sensibile alle ingiustizie e instancabile polemista, era indubbiamente una grande personalità  politica e non aveva forse tutti i torti quando, dopo la conclusione del primo Congresso sionista a Basilea nel 1897, scriveva nel suo diario: «A Basilea ho fondato lo Stato ebraico», consapevole — aggiungeva — che se avesse pronunciato pubblicamente quella frase avrebbe suscitato «una risata universale», ma che cinque o cinquant’anni più tardi quella frase avrebbe dimostrato la sua verità .
Lo Stato di Israele nascerà  infatti il 14 maggio 1948 e nascerà  certo non da libri o da congressi, bensì da drammatiche, contraddittorie, eroiche e complesse vicende storiche, ma il ruolo avuto dai libri di Herzl come il saggio Lo Stato ebraico (1896) e il romanzo utopico Antica Terra Nuova (1902), che traduce il progetto politico in concreta vita vissuta, è di centrale importanza.
Se questi sono i libri che danno a Herzl il suo posto nella storia, c’è un Herzl minore, più lieve ma non privo di fascino, in cui il peso della responsabilità  etico-politica è alleggerito da un’amabilità  viennese, come dimostrano i Feuilletons (Archinto, pp. 328, 25) ora splendidamente tradotti e presentati da Giuseppe Farese, grande interprete di un genio di Vienna quale Arthur Schnitzler e grande conoscitore dell’universo austro-mitteleuropeo e della sua capitale danubiana, insieme basso ventre e spumeggiante superficie della Storia che in quegli anni stava macinando a morte la vecchia Europa.
Vienna è la capitale del feuilleton, della pagina ariosa ed effimera che cerca di spacciare un tramonto per un’aurora, che si rivolge al frammento della vita, alla sua sensuale brevità , alle istantanee di una civiltà  subito dissolte nel fluire del tempo, ma che colgono nella caducità  dell’istante tutta un’epoca, la sua sensualità  e la sua nascosta mortalità , la sua frivolezza e la profondità  dell’esistenza che affiora per un attimo in quella frivolezza. Herzl è un piccolo maestro in questi Feuilletons, che evocano un’atmosfera, la sofferenza di misere oscure creature piene di dignità , le struggenti domeniche al Prater, il colore delle stagioni, il pregiudizio razziale e sociale celato nei gesti quotidiani.
La realtà  assomiglia sempre di più a un circo Barnum, in un intreccio di acute osservazioni — ad esempio della società  francese o del paesaggio inglese — di attenzione quasi morbosa alla morte, specie infantile, di indefinibile nostalgia e di sensibilità  sociale. Con leggerezza, la più alta delle virtù, Herzl sembra invitare a non cercare «ciò che si trova dietro le cose», perché «dietro le cose non c’è proprio nulla». Un libro che un vecchio brucia per riscaldarsi si rivela, agli occhi di Napoleone che osserva il piccolo falò, un volume sulle glorie militari della Francia. Ma la scritta «Unemployed» ricamata sulle bandiere degli operai inglesi in corteo a Londra è terribilmente reale. In ogni caso, l’uomo in sé appare inadeguato: «Se un ottico mi portasse uno strumento così imperfetto come l’occhio umano — scrive Herzl citando Helmholtz — glielo darei indietro come inservibile».


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