Il triangolo del profitto per le imprese della guerra

by Sergio Segio | 28 Dicembre 2012 9:00

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«Nel 1757 – ci informa Subhabrata Banerjee – quando arrivarono a Londra le prime notizie della guerra scoppiata tra i francesi e la East India Company, le azioni di quest’ultima salirono in poco tempo del 12%». «Nel dicembre del 2004 – aggiunge Amedeo Policante – il valore di Armor Holding, una compagnia militare sempre pronta a servire a pagamento le operazioni dell’esercito americano, raggiunse il suo picco nelle ore in cui il governo americano si accingeva ad annunciare i contratti per la partecipazione di privati all’occupazione del territorio iracheno». In quasi tre secoli, il mercato della guerra e la guerra dei mercati non sembrano cambiati granché. Certo, la East India non era esattamente una compagnia militare, ma quale filo rosso la lega a una Private Military Company (Pmc) attiva oggi in Iraq?
I nuovi mercenari di Amedeo Policante (ombre corte, pp. 174, euro 16) permette di delineare una simile trama di continuità  e di discontinuità , esplorando il lato militare del capitale e quello imprenditoriale della guerra. Al centro del libro è il fenomeno eclatante del mercato della violenza privata nello scenario irregolare dei conflitti contemporanei.
Da noi c’è voluta la morte di Quattrocchi, ma per rendersi conto della diffusione dei private warriors basta guardare i numeri: in Iraq, nel 2007, a fronte di 130.000 soldati regolari c’erano 160.000 addetti di compagnie private; alle latitudini di Kabul, nel 2010, i militari erano 68.000, i contractors 104.000; se poi lo sguardo si allarga alle guerre tra «stati senza esercito ed eserciti senza stato» che infestano il contesto postcoloniale ogni possibile rapporto è destinato a saltare. Così, sulla scorta di una letteratura cospicua (Munckler, Reno, Singer, Azzellini, ecc.), Policante rilegge da più angolazioni (militari, economiche, politiche, culturali) il fenomeno contractor, dedicando la prima parte del libro alle traiettorie della figura del mercenario, dalle compagnie di ventura e le condotte rinascimentali alla pirateria mercantile, dal bando durante l’età  delle nazioni e delle stragi di massa in loro nome ai fronti irregolari dei conflitti globali di oggi. La sfida è quella di far emergere un presente complicato o appesantito dalla sua ombra proiettata sul passato, per cui le mansioni delle attuali Pmc consentono di comprendere meglio il lavoro di «scavo» compiuto dalle compagnie mercantili coloniali, e viceversa. Ma in cosa consistono queste mansioni e di cosa sono sintomo?
L’outsourcing della sicurezza
L’industria militare privata si presenta oggi come una galassia differenziata (per quanto ogni distinzione interna tra compagnie militari e di sicurezza si riveli più che altro formale) e in costante crescita (negli Usa il fatturato complessivo è raddoppiato, da 100 a 200 miliardi di dollari, in meno di dieci anni), in grado di offrire servizi di logistica, intelligence, supporto tecnico, trasporto oltre che attività  bellica diretta negli scenari scomposti di quelle che, faute de mieux, vengono definite «nuove guerre». Pertanto affianca, integra e sempre più sostituisce gli eserciti regolari, divenendo sintomo della progressiva privatizzazione che investe la guerra e di un più generale processo di privatizzazione della sicurezza. Se la domanda di sicurezza, interna ed esterna, si indirizza sempre più sul mercato, ciò a sua volta mina le basi della legittimazione degli stati contribuendo a delineare un tendenziale esaurimento del monopolio statale della violenza organizzata. Si tratta di un processo innegabile, dato l’indebolimento del controllo statale sul possesso e l’uso di mezzi di coercizione. Il fatto è che, come in un nastro di Moebius, di tale processo gli stati, oltre che clienti, sono i principali mandanti, attraverso strategie di outsourcing e «sistemi triangolari di profitto» con multinazionali e Pmc che restituiscono una quadro eloquente della geografia frattalizzata e «multiscalare» in cui si inseriscono i nuovi conflitti, sottraendoli a qualsiasi controllo politico diretto. In questa prospettiva, la stessa formula a presa rapida «privatizzazione della guerra» si rivela parziale e le guerre asimmetriche e «informi» del presente si caratterizzano piuttosto come consorzi o partnership tra pubblico e privato, dove è proprio il confine tra i due ambiti a risultare indefinibile.
Il fenomeno dei nuovi mercenari viene quindi riletto da Policante in funzione della più generale osmosi che offusca ogni confine, oltre che tra pubblico e privato, anche tra militare e civile, pace e guerra, interno ed esterno, restituendo i contorni di uno scenario che eccede definitivamente la forma e i limiti di quello che Carl Schmitt rimpiangeva sotto il nome di jus publicum europaeum. E l’analisi si concentra soprattutto sulla ridefinizione delle spazialità  politiche, e quindi sulla specifica geografia in cui le Pmc si inseriscono e che contribuiscono a produrre. Come si sottolinea più volte nel libro, i nuovi gruppi mercenari sono infatti grandi corporation, organizzate gerarchicamente e integrate verticalmente nei mercati globali («come entità  legali e registrate, quasi sempre in paradisi fiscali»), legate a doppio filo con «il più ampio mercato dei servizi, dell’estrazione mineraria e petrolifera, persino dell’informatica e della produzione immateriale». Si scopre così che le maggiori compagnie (Vinnell, Halliburton, Armorgroup, Sandline, Executive Outcomes) «fanno parte di vasti network corporativi di cui in alcuni casi costituiscono il vero e proprio braccio armato, capace di aprire allo sfruttamento mercati altrimenti inaccessibili». Si tratta di un lavoro estrattivo essenziale per quell’accumulation by dispossession che David Harvey identifica come motore della macchina «tardocapitalista», che trova nel mondo postcoloniale il proprio campo di applicazione privilegiato, una sorta di laboratorio in cui testare nuove «tecnologie della sicurezza» da esportare altrove.
Per estrarre, infatti, occorre scavare. Lo dimostra Anna Tsing in un’esplorazione etnografica dei conflitti e dei diversi livelli di «frizione» (questo la traduzione del titolo del suo libro edito dalla Princeton University Press, Friction: An Ethnography of Global Connection) che deflagrano intorno allo sfruttamento delle foreste pluviali del Borneo, dove l’estrazione di valore è ricondotta a un’attività  di scavo che apre «canali globali il cui passaggio e la cui difesa richiedono un costante apporto di violenza».
Tra passato e presente
È essenzialmente in base a quest’opera di violenta apertura che, secondo Policante, occorre leggere i processi di privatizzazione della violenza e il ruolo specifico delle compagnie militari private, la cui posta in palio è l’inclusione differenziale dello spazio postcoloniale nei mercati globali. Detta così, sembra davvero di tornare indietro, con le multinazionali della sicurezza e della guerra che funzionano come le vecchie compagnie mercantili coloniali. La differenza, forse, è data dal fatto che le imprese di privateering dell’East India Company rientravano ancora all’interno di determinati confini (su tutti quello decisivo che separava imperi metropolitani e colonie) e contribuivano a modo loro a imporre delle mappe. Nell’orizzonte postcoloniale delle nuove guerre, invece, la presenza decisiva delle Pmc indica come oggi i confini, dentro e fuori dagli stati, continuino a moltiplicarsi dissolvendo nell’aria ogni possibile mappa.

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