Il prezzo da pagare per essere sul posto

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In un articolo arguto e cupo del New York Times Magazine, Robert Worth racconta la delusione dei diplomatici dopo aver scelto la propria carriera nella speranza di immergersi nel mondo (sognando addirittura di cambiarlo), e che invece si ritrovano imbrigliati dalle infinite precauzioni di una Washington avversa ai rischi. È difficile cambiare il mondo se si abita in una fortezza e ci si sposta con un corteo di auto blindate.
L’articolo prendeva spunto dalla morte di Christopher Stevens, l’ambasciatore ucciso l’11 settembre a Bengasi, in Libia, in un attacco jihadista contro la missione americana. La sua morte, scrive Worth, «ha innestato una bufera politica… Le minacce erano state ignorate, affermano i critici inconsapevoli del fatto che per le ambasciate di tutto il Medio Oriente le minacce sono un incessante “rumore di fondo”. La morte di un ambasciatore non poteva essere considerata l’occasionale prezzo da pagare per una professione nobile ma rischiosa; occorreva incolpare qualcuno».
La frase: «l’occasionale prezzo da pagare per una professione nobile, ma rischiosa» mi ha colpito da vicino. È una valutazione con cui fa spesso i conti la tribù di corrispondenti esteri in luoghi che possono esplodere da un momento all’altro. Se è vero che i diplomatici si stanno ritirando dietro scorte armate, e se ciò compromette la nostra capacità  di comprendere il mondo, si può forse dire altrettanto di coloro che seguono gli eventi per descriverli? E con quali conseguenze?
Anche il corrispondente estero “profondamente impegnato” è una specie a rischio. I mezzi di informazione hanno iniziato a prendere le distanze dal mondo molto tempo fa, per considerazioni economiche e l’errata convinzione che ai lettori non interessi molto sapere ciò che accade nel resto del mondo. Due anni fa l’American Journalism Review scriveva che 18 quotidiani americani e due catene di giornali avevano chiuso gli uffici di corrispondenza all’estero. Anche la maggioranza dei network televisivi hanno ridotto o rinunciato agli uffici di corrispondenza, a favore di cronisti o giornalisti televisivi pronti a paracadutarsi ovunque in caso di emergenza. Offrono una copertura intermittente, nel caso scoppi la Primavera araba o Hamas lanci missili su Israele, senza però dedicare agli eventi quella costante attenzione che ci metterebbe in grado di prevedere lo scoppio di una crisi e comprenderne le cause.
Il New York Times e poche altre testate (tra cui la Npr, la Bbc, il Wall Street Journal, la Cnn) si sono opposti a questa tendenza. Non a caso, il segmento del nostro pubblico in più rapida crescita è il mondo. Tuttavia, il Times non è immune ai pericoli. Al quindicesimo piano del nostro edificio, le sale riunioni hanno i nomi dei giornalisti morti nell’inseguimento della notizia. «L’occasionale prezzo da pagare per una professione nobile, ma rischiosa» è di poco conforto.
Anthony Shadid era il nostro Chris Stevens: un corrispondente appassionato, fluente nella lingua, nella cultura e nella storia arabe, un ascoltatore avido, uno scrittore eccellente. Prudente, ma impaziente di toccare con mano. La morte di Anthony quest’anno per un grave attacco di asma mentre lui era in Siria, è stata un incidente orrendo. Ma dopo il rapimento di quattro giornalisti del Times in Libia, la vicenda di David Rohde rimasto per sette mesi in mano ai Taliban, e altri incidenti, il giornale ha intensificato misure di sicurezza già  rigide, suscitando in alcuni corrispondenti il timore che tutto ciò li avrebbe allontanati dalla fonte della verità .
«È questione di equilibrio», mi scrive Alissa Rubin, che percorre l’Afghanistan in lungo e in largo, per raccontarlo. «La cautela è un bene, a patto di non esagerare». A Kabul, aggiunge, alcune testate non permettono ai giornalisti di avventurarsi fuori dalla capitale, mentre altre corrono «rischi scellerati». Nei luoghi pericolosi, il Times si avvale di esperti di sicurezza. Percorrere con Alissa il paesaggio dilaniato dalla guerra significa apprezzare il significato del termine “meticoloso”: le sue missioni vengono programmate, tracciate e cronometrate nei minimi dettagli, mentre tutte le persone coinvolte sono pronte a cogliere segnali di potenziale pericolo.
In definitiva, per giudicare se un rischio è eccessivo occorre affidarsi a corrispondenti addestrati ed esperti. E ciò mi riporta al tema centrale: nel nostro lavoro, la domanda da porsi non è se talvolta eccediamo nella cautela, ma se stiamo assumendo, allevando e schierando sul campo la futura generazione di corrispondenti addestrati ed esperti in grado di prendere decisioni di quel tipo. Una scelta che è, al tempo stesso, il miglior investimento possibile nella sicurezza.
Diplomatici e giornalisti lavorano per padroni diversi, ma entrambi esigono prossimità . YouTube e Twitter non possono sostituirsi alla presenza fisica, malgrado durante la rivolta in Iran nel 2009 abbiano tenuto in vita quella storia anche dopo l’espulsione dei giornalisti dal Paese, o da piazza Tahrir abbiano fornito una lettura in tempo reale della Primavera araba.
Perciò Anthony era in Siria, e perciò alcuni colleghi temono che la nostra reazione ai rischi sempre meno prevedibili che quel luogo presenta possa impoverire il nostro stile di giornalismo. I media britannici, europei e arabi sono sul posto a tempo pieno. Ma è possibile che noi, non essendoci, stiamo rinunciando a comprendere alcuni aspetti di una vicenda immensamente complicata.
Il prezzo che paghiamo per non trovarci là  dove le notizie accadono si traduce non solo in una qualità  inferiore di giornalismo, ma in una qualità  inferiore di politica. Poiché, è bene saperlo, una parte dell’informazione che i governi chiamano “intelligence” altro non è che un’attenta lettura delle notizie.
È scandaloso che l’amministrazione Obama abbia descritto in prima battuta l’attacco che ha ucciso Chris Stevens non come un complotto terroristico bensì come una dimostrazione di protesta, degenerata. Come ha potuto l’intelligence prendere una cantonata simile? Ho il forte sospetto che l’errore scaturisca anche dal fatto che la maggior parte di noi giornalisti non eravamo lì.
(© 2012 The New York Times News Service. Distribuito  da The New York Times Syndicate Traduzione di Marzia Porta)


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