IL NUOVO CAPITALISMO

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Un libro fin troppo ricco di intelligenza e di provocazioni intellettuali, quello appena uscito di Giorgio Ruffolo col contributo di Stefano Sylos Labini, Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, pagg. 128, euro 12), una narrazione ragionata dello stravolgimento economico che ha spinto e sta tenendo il mondo sull’orlo dell’abisso. La sceneggiatura, non a caso esplicitamente cinematografica, racconta in gran parte vicende che hanno riempito le cronache di questi ultimi anni, ma come le grandi pellicole ne dà  una versione inedita e a volte sorprendente per gli spettatori, alcuni dei quali si sono fatti già  una versione diversa dei fatti e faticano ad accettare la stesura escogitata, con spunti di assoluta originalità , almeno in alcuni passaggi, da uno degli ultimi pensatori socialisti del secolo. Per chi, come il sottoscritto, non concorda in tutto e per tutto col riformismo di sinistra del nostro autore farà  bene a dar conto delle proprie perplessità , estrapolandole da un assieme, comunque, di assoluto apprezzamento.
La tesi centrale del libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nascerebbe dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura – cioè quella attuale – può essere definita come l’Età  del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall’inizio del secolo precedente. La prima fase è un’Età  dei Torbidi, che si è verificata tra l’inizio del secolo e lo scoppio della seconda guerra mondiale. La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età  dell’Oro: un sistema di intese fra capitalismo e democrazia fondato nell’immediato secondo dopoguerra su due accordi fondamentali, il Gatt (oggi Wto-Word Trade Organization) che
riguardava la libera circolazione delle merci, cui faceva da contrappeso il controllo del movimento dei capitali, che assicurava un largo spazio all’autonomia della politica economica. Il secondo accordo è appunto quello di Bretton Woods, sul controllo dei cambi e le garanzie da movimenti incontrollati dei capitali, grazie all’aggancio monetario al metallo giallo e automaticamente, di converso, al dollaro.
Secondo i due saggisti la terza fase, con la rottura dell’Età  dell’Oro, si produce con la liberazione del movimento dei capitali nel mondo, «una vera e propria controffensiva capitalistica, attuata dai leader di Usa e Gb all’inizio degli anni Ottanta che determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro». Inzia l’Età  del Capitalismo Finanziario ampiamente descritta nelle sue varie fasi e interventi, dominati dall’indebitamento pubblico e privato alimentato dall’illusione di vivere in «un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai». Per i critici la rappresentazione di questa fase del saggio si presterebbe a più di una osservazione. Mi limiterò ad indicare una mancanza che indebolisce alla base il paradigma ruffoliano. Chi sarebbero i soggetti – Capitalismo e Democrazia – che darebbero vita a questo scontro epocale? Chi concretamente li rappresenta? I grandi gruppi finanziari contrapposti a una fantomatica Democrazia?
La realtà  cui ci apponiamo appartiene a un’altra storia, una storia reale, quella che ha visto il Comunismo, il suo sistema economico rigidamente regolato e protetto, la sua dittatura poliziesca, la sua forza militare, il suo appeal ideologico, contrapposti al Capitalismo e al suo sistema, basato sul libero mercato, indebolito a volte da quelle che si chiamarono “the failures of capitalism”, rafforzato, peraltro, in ultima istanza, dalla solidarietà  atlantica. Tutto questo resse fino al 1989, la caduta del Muro di Berlino, che comportò, fra l’altro, la fine degli Stati del comunismo reale e il tramonto del compromesso che reggeva la coesistenza disagevole dei “due mercati”, quello del “socialismo reale”, amministrato dalle burocrazie sovietiche e quello del libero scambio. Ora, se è vera e convincente l’analisi della dittatura finanziaria nell’epoca delle traversie che tendono ad allargarsi a tutti i continenti, come non cercarne le radici, anche ideologiche, nel fallimento precedente? In particolare nel crollo dell’illusione fondante del sistema socialista di regolare l’offerta, la domanda e il livello dei prezzi attraverso la pianificazione quinquennale totalitaria. Una idea che pervase la pratica e la teoria dei partiti che al socialismo si rifacevano e il cui dissolversi si contaminò nel magma della globalizzazione,
attraverso la libera circolazione degli uomini e dei capitali e nella unificazione in tempo reale dei sistemi internazionali attraverso la mondializzazione e l’informatica.
Ora mi chiedo se sia possibile confrontarsi con la crisi attuale senza calarsi nella diagnosi approfondita del socialismo reale e, in seguito, della globalizzazione? Come se tutto si fosse svolto in uno spazio sospeso, regolato da teoremi di opposta scuola e non immerso, invece, nella concretezza della storia degli uomini e della società , le cui regole, più che da certezze scientifiche, vanno cercate nella eterogenesi dei fini, impensabili fino al giorno precedente. Una prova di come sia più chiaroveggente la storia reale che quella derivante dalle teorie ce la fornisce proprio Ruffolo definendo il periodo hitleriano, in particolare quello tra il 1933 e il 1936 «uno dei più grandi fenomeni economici della storia moderna, persino più del tanto celebrato New Deal di F. D. Roosevelt», attraverso l’emissione promossa dal ministro delle Finanze Hjalmar Schact delle obbligazioni Mefo, una compagnia statale inesistente, i cui titoli non gravavano sul debito pubblico e non incidevano sull’inflazione, circolando solo in Germania. Un meccanismo, peraltro, in cui lo Stato e la Reichsbank ebbero un ruolo determinante, perché autorizzavano le emissioni e davano la garanzia. E ancora. Il giudizio favorevole ai Mefo e alle monete sostitutive sul piano interno, si rivelerebbe puramente velleitario se ignorasse,
come in effetti indulgono Ruffolo e Sylos Labini, che il tutto si regge sul potere dittatoriale nazista. Senza le SS, i Mefo sarebbero carta straccia. Inoltre andrebbe ricordato che buona parte d’Europa si difese bene o male dalla Grande Crisi degli anni Trenta sulla premessa della caduta delle democrazie e l’instaurarsi di poteri dittatoriali, accompagnati da strumenti quali l’Iri in Italia, il Gosplan in Urss e, appunto, il Gifo in Germania, tutti resi funzionanti da due circolazioni monetarie, l’una per l’estero e l’altra per l’interno. Non se ne può copiare un pezzo senza assumersene il tutto.


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