Il ministro cerca guerra

by Sergio Segio | 1 Dicembre 2012 9:44

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Il pomeriggio del 16 novembre 2011 quando giurarono fedeltà  alla Costituzione i ministri-tecnici del primo Governo Monti, lui non c’era. «L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, alla difesa, è in missione in Afghanistan per conto dell’Alleanza atlantica», si giustificò il premier. Da quel momento in poi il ministro con le stellette non si è fermato un attimo, sempre in giro per il mondo a promuovere la grandeur dell’Italia e l’efficienza del suo complesso militare industriale. 
La prima visita ufficiale dell’ex Capo di stato maggiore ed ex presidente del Comitato militare della Nato – tredici giorni dopo l’insediamento – era a Berlino nel nome del ritrovato asse italo-tedesco per lo sviluppo dei missili e dei droni. Poi, una dietro l’altra, le missioni in Mauritania, nuovamente in Afghanistan, Gran Bretagna, Libano, Albania, Tunisia, Belgio, Russia, Stati Uniti (faccia a faccia con il Segretario alla difesa, Leon Edward Panetta, per predisporre il supporto logistico italiano alla missione Onu in Siria e parlare di scudo antimissile Nato e Afghanistan), Giordania, Giappone, Filippine, Francia, una seconda volta in Germania e Libano, Algeria, Lituania, Lettonia, ancora Afghanistan, Cipro, il Comando Nato di Bruxelles per il vertice dei ministri dell’Alleanza, Armenia e, a fine ottobre, a Gerusalemme per il «terzo vertice intergovernativo Italia-Israele» a riprova di una partnership sempre più fatta di esercitazioni congiunte, in Sardegna e nel Tirreno, nel deserto del Negev e nel golfo di Haifa, e di import-export di caccia, missili, satelliti e velivoli spia. Infine, qualche giorno fa, i bis in Algeria e in Francia (più correttamente a Parigi per la riunione con i ministri della difesa e degli esteri di Germania, Francia, Polonia e Spagna. 
Quando è rimasto a Roma, l’instancabile ammiraglio è stato disponibile a ricevere in pompa magna una lunga lista di omologhi ministri alla guerra e alti ufficiali Usa e Nato: nell’ordine di arrivo in Italia, quelli di Canada, Sud Africa, Serbia, Filippine, Somalia, Macedonia, il Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen (all’ordine del giorno «l’impegno in Afghanistan al termine della fase di transizione, la situazione nei Balcani, la difesa missilistica e la riforma dei Comandi e delle Agenzie dell’Alleanza»), Libia, Polonia, Kazakhstan, Somalia bis, Russia, Montenegro, Lettonia, il generale James N. Mattis comandante dell’U.S. Central Command, Afghanistan, Senegal, Slovenia, Vietnam, Azerbaijan, Francia, Colombia. Ovviamente molti dei vertici si sono conclusi con la firma di memorandum e accordi di mutua cooperazione tra le forze armate, war games e addestramenti congiunti, sperimentazione e acquisizioni di sistemi d’arma e attrezzature tecnologiche di alto valore strategico. 
Pur consolidando gli impegni nei principali teatri di conflitto internazionale intrapresi dai predecessori (Afghanistan, Libano, Balcani, Corno d’Africa, ecc.), Giampaolo Di Paola ha chiesto di estendere la proiezione militare italiana ai turbolenti scenari del continente africano: innanzitutto la «nuova Libia» uscita esangue dai bombardamenti Nato ed extra-Nato dello scorso anno e a cui già  forniamo intelligence, addestratori e consulenti (senza dimenticare il consenso a Washington a lanciare, dalla base di Sigonella, stormi di droni contro Tripoli e Bengasi); il Maghreb (dove la priorità  resta la lotta all’immigrazione «clandestina» nel Mediterraneo); l’Uganda (da fine agosto un team dell’esercito a Kampala addestra al combattimento i militari locali destinati al fronte somalo e alla caccia di «terroristi» nella regione dei Grandi Laghi); il Kenya, con cui l’esecutivo Monti ha avviato un’«intesa per consolidare le rispettive capacità  difensive e migliorare la comprensione reciproca sulle questioni della sicurezza»; il martoriato Mali (l’Italia ha rassicurato l’Unione europea e gli stati africani che non farà  mancare il suo supporto all’ormai prossimo intervento multinazionale d’occupazione). 
L’Italia è pronta ad andare ovunque e comunque, è l’assunto del ministro, per difendere i valori e gli interessi del tricolore, specie se questi coincidono con quelli dei manager e degli azionisti delle grandi aziende produttrici di materiale bellico. «Il settore industriale italiano nel campo sicurezza e difesa è ad alta tecnologia e ad alta innovazione, di rilevante importanza per lo sviluppo economico di questo Paese», ha dichiarato Di Paola durante l”audizione con la Commissione difesa alla Camera dei deputati, lo scorso 6 novembre. Poi ha aggiunto: «Finmeccanica, la più grande delle industrie italiane nel settore ed una tra le più grandi a livello globale, impiega circa 70.000 unità  lavorative e ha un fatturato di oltre 16-17 miliardi di euro all’anno e di questo, l’80% viene dal settore sicurezza e difesa. Questa realtà  tecnologica e industriale, importantissima anche per l’occupazione e la crescita a cui contribuisce, deve essere sostenuta con investimenti appropriati e collaborazioni internazionali importanti». E per sostenere Finmeccanica e socie, Di Paola è capace a rimettersi in viaggio tra un meeting e l’altro, visitando le maggiori fiere internazionali degli strumenti di morte, come quella «aerea» di Farnborough, Gran Bretagna (12 luglio) o l’Euronaval di Parigi – Le Bourget (24 ottobre). 
Encomiabile il pressing su Monti, media e Parlamento per risparmiare alla Difesa l’offesa dei tagli della spending review. «Lo strumento militare e le Forze armate italiane devono disporre di capacità  operative e tecnologiche avanzate, tra le quali certamente rientrano quelle nel settore delle forze aeree, come la linea dei cacciabombardieri F-35», ha spiegato Di Paola in Commissione difesa. «L’ammodernamento dello strumento militare, però, è molto più ampio ed articolato ed investe programmi di rinnovamento delle forze terrestri, quali la Forza NEC (Network Enabled Capabilities), delle unità  navali, degli elicotteri, dei sistemi satellitari, di difesa missilistica, di comando, controllo e comunicazione e dei droni, che rappresentano il futuro di questo settore». Un programma di ammodernamento ad ampio raggio, dunque, con un occhio particolare alla guerra cibernetica, «la nuova frontiera della minaccia», secondo il ministro. 
Così, per sostenere l’impeto riarmista e consolidare il trasferimento di ingenti risorse finanziarie pubbliche alle industrie militari anche in tempi di crisi, Di Paola ha rilanciato la trasformazione del modello «difesa», dove i «risparmi» per la progressiva riduzione del numero di avieri, marinai e fanti si convertiranno in «investimenti» in caccia, sottomarini, carri armati, droni e apparati elettronici. Il tutto condito da qualche opportuno gioco di prestigio nella predisposizione dei bilanci. Come ad esempio quello di posticipare gli ordini di qualche anno, spalmando le spese su più annualità  (i nuovi velivoli blindati «Freccia» di Iveco e Oto Melara sono così slittati dal 2013 al 2016, i due sottomarini U 212 invece del 2016 arriveranno l’anno successivo, gli elicotteri d’attacco NH90 di AugustaWestland dal 2018 al 2021, quelli AW101 dell’Aeronautica dal 2014 al 2017, l’adozione dei missili «Spike» a bordo dei famigerati «Mangusta» dal 2017 al 2014). 
Di contro nel 2013 saranno acquistati sistemi di cui nessuno sino ad oggi aveva parlato: 40 blindati multi-uso e anti-mine del consorzio tedesco Iveco-Krauss (costo 120 milioni di euro ma c’è l’opzione per altri 40), un imprecisato numero di mortai da 81 mm (16 milioni), un «velivolo senza pilota tattico UAV» per la Marina militare da utilizzare «per la sorveglianza e le operazioni navali anti-pirateria», ecc.. All’esordio pure lo «sviluppo» dell’MC-27J, la versione dotata di cannoniere dell’aereo da trasporto C-27J «Spartan» prodotto da Alenia Aermacchi. E che nessuno dica che a Palazzo Baracchini non si operi alacremente..

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