by Sergio Segio | 13 Dicembre 2012 7:29
Per quasi un’ora e mezzo, Silvio Berlusconi ha avvolto in una nuvola di fumo verbale la propria ricandidatura a Palazzo Chigi, davanti alla platea del residence romano dove presentava l’ultimo libro di Bruno Vespa. Ma adesso, mentre esce da un ingresso secondario circondato dalle guardie del corpo, ammette il suo cruccio più inconfessabile: è quasi sicuro di perdere, e il fuoco di sbarramento che ha ricevuto in Italia e soprattutto in Europa mette in conflitto la sua voglia di combattere con l’alone pesante di un disastro elettorale.
Oggi, quando si troverà di fronte i vertici del Partito popolare europeo a Bruxelles, Berlusconi sa che avrà davanti non più una nomenklatura attenta a tollerare e inglobare l’azionista di maggioranza dei voti moderati in Italia. Dovrà rintuzzare le critiche di fratelli-coltelli decisi a chiedergli conto degli attacchi alla moneta unica e al governo tecnico di Mario Monti; contrari al suo azzardo di tentare per la sesta volta la scalata a Palazzo Chigi in condizioni proibitive; e spaventati dalla prospettiva di avere al proprio interno un ex premier che insegue un populismo guardato come il vero nemico dei governi di centrodestra. L’uscita di Berlusconi sullo spread bollato come «imbroglio», giudizio confermato anche ieri, e le trattative per allearsi con la Lega, sono macigni.
In un’atmosfera un po’ surreale, ieri i suoi tifosi che gremivano le prime file lo hanno applaudito ad ogni attacco all’Ue, ai magistrati, all’euro, ai «tecnici». Ma poi si guardavano un po’ smarriti quando quello che ritenevano il loro Cavaliere al galoppo verso Palazzo Chigi schivava le domande sulla ricandidatura. Le aggirava. Spiegava che avrebbe visto benissimo Monti come premier di uno schieramento dei moderati. Rivelava che le trattative con la Lega di Roberto Maroni avevano come punto fermo la sua rinuncia a candidarsi alla presidenza del Consiglio. Minacciava la caduta delle giunte Pdl-Lega in Veneto e Piemonte se non si raggiunge l’intesa a livello nazionale. Ma soprattutto offriva un’immagine di grande confusione: come se non sapesse bene dove andare e con chi, collezionando finora porte chiuse e condizioni-capestro.
È la confusione di chi sta cercando una via d’uscita ad una situazione nella quale si è infilato senza forse calcolarne tutte le conseguenze. E che mantiene comunque lucidità sufficiente per capire la crisi della sua leadership e del suo partito; e si rende conto che a oggi la prospettiva è la sconfitta. Dunque, meglio buttare lì altre candidature, sebbene la sua formalmente non sia stata ancora ritirata. Per questo Berlusconi, a sorpresa, ha rilanciato l’ipotesi che per Palazzo Chigi possa correre Angelino Alfano, il bistrattato segretario del Pdl: potrebbe essere lui il compromesso per siglare un patto col Carroccio. «Angelino è in pole position», è il favorito, ha dichiarato, annunciando che nelle liste non ci sarà più Marcello Dell’Utri: un perseguitato dalla magistratura, a sentire Berlusconi. Ma ormai impresentabile, e reduce da uno scontro rude proprio con Alfano, che sembrava volerne la testa.
L’ambizione berlusconiana deve dunque ridimensionarsi per i veti piovuti su di lui dei potenziali alleati, e per il rischio di una diaspora del Pdl. Quell’acronimo non gli piace, ma non lo abbandonerà : si limiterà ad affiancargli la sigla storica di Forza Italia. Non c’è tempo per cambiarlo. E poi, ma questo non l’ha detto, c’è il rischio che un nuovo partito debba ripercorrere le procedure per essere accettato dal Ppe; e magari, con l’aria che tira, non venga accettato. Dunque non esclude di agire da «federatore» di un grande schieramento moderato. Oppure da «leader della coalizione», variante lessicale ma comunque inequivocabile nell’escluderlo dal ruolo di candidato premier. «È una questione complicata», ammette Berlusconi. Ormai deve tenere conto di molte, troppe cose.
Ma il Cavaliere ha lasciato capire di coltivare un vero sogno proibito: consegnare a Monti candidato di uno schieramento di centrodestra ciò che resta dei suoi consensi elettorali per battere di nuovo, da spettatore-regista, la sinistra. Non sarà facile, però. L’offerta di un’alleanza arriva dopo che il Pdl ha provocato di fatto la caduta del governo dei tecnici; e dopo avere attaccato e demolito senza remore la sua politica economica, pur di giustificare il proprio «ritorno in campo» e far dimenticare i magrissimi risultati dell’ultimo esecutivo a guida berlusconiana, costretto alle dimissioni tredici mesi fa. Per paradosso, il vero pericolo che l’ex premier corre nei prossimi giorni è quello di essere costretto a rimanere candidato a Palazzo Chigi. Non sospinto da un entusiasmo crescente, ma circondato invece dal deserto delle alleanze e additato dalla «sua» Europa, quella del Ppe, come un corpo estraneo. Probabilmente lo ha capito. Il difficile, per Berlusconi, viene adesso: dovrà uscire dalla trappola che si è costruito da solo, cercando di riemergere il meno malconcio possibile.
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