I samurai spaventati dalla crisi al voto per fermare il declino

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TOKYO. «Saldi». Le vetrine di Ginza e Omote-sando non sono più il sogno consumista del Natale dell’Oriente. Il lusso è a metà  prezzo, la merce non anticipa la moda: non c’è coda alla cassa. Luci e addobbi restano quelli usati tre anni fa. Una folla di vecchi marcia ancora ostinatamente nelle strade perfette di Tokyo, che per trent’anni hanno reso fisica l’idea di una crescita infinita, concimata con le spese. Pochi però varcano la soglia dei negozi per esibire poi il pacco con il fiocco rosso di un regalo. La capitale del Giappone non è più il simbolo del nostro futuro, i gadget elettronici soffiano un vento di nostalgia e i giapponesi hanno altri pensieri. La maledizione del terremoto, dello tsunami e di una crisi nucleare, è tornata a scuotere la metropoli e le prefetture colpite nel marzo di due anni fa. Domenica si terranno invece le elezioni anticipate e una nazione ancora più spaventata dalla rapidità  del proprio declino, si prepara ad attraversare il deserto delle certezze su cui è stata ricostruita. Il primo voto dopo lo shock di Fukushima annuncia un’altra scossa. Si profilano il settimo premier in sei anni e l’ennesimo governo bruciato. L’incubo di un popolo allevato nel culto dell’ordine non è però l’instabilità : questa volta è l’ingovernabilità , il grande stallo, che i sondaggi prevedono come una certezza e una condanna. I candidati sono 1482, nessun partito otterrà  la maggioranza, si profilano incerte coalizioni tra dodici micro-schieramenti e un parlamento con Camere in minoranza che bloccano l’una le scelte dell’altra. «Il sistema – dice Toshiro Kojima, docente di politica all’università  Aoyama Gakuin – si è inceppato. Le difficoltà  sono enormi e le soluzioni politiche non tengono il passo. La differenza di velocità  tra domande e risposte è il cuore di una crisi di civiltà , in cui affonda anche la democrazia giapponese». Per il partito democratico (Dpj) del premier Yoshihiko Noda si annuncia una dura sconfitta. Non va oltre il 10-13%, mentre il gradimento del governo è precipitato sotto il 18%. Nell’estate 2009, dopo mezzo secolo di potere conservatore, nella Camera Bassa aveva ottenuto oltre 300 seggi su 480. In tre anni e mezzo di impegni traditi, stremati da divisioni interne, scandali e indecisioni, i democratici hanno perso la maggioranza e cambiato tre cancellieri. La terza economia del pianeta è stata sorpassata dalla Cina, annaspa nella deflazione, affonda nella quinta recessione in 15 anni ed esibisce un rapporto debito-Pil del 233%, il più alto da sempre. Le esportazioni segnano un meno 6,5%, i consumi interni sono fermi, la bilancia commerciale tocca un deficit mensile di 5,3 miliardi di euro, peggior risultato degli ultimi trent’anni. I sondaggi assicurano che le urne sanciranno il ritorno al potere del partito liberal-democratico (Ldp) del falco di destra Shinzo Abe, già  premier tra il 2006 e il 2007, sostenuto dalle imprese, neo-profeta del controllo dello Stato su economia e banca centrale, della corsa al riarmo e di un Giappone meno aperto verso Cina e Corea del Sud.
I liberali sono accreditati di un 19-27% dei consensi mentre Abe, promettendo un’inflazione tra il 2 e il 3%, altri debiti per politiche monetarie più espansive e 2,5 miliardi di opere pubbliche, raggiunge il 28%. A prevalere è però, con la voglia di cambiare, una densa paura collettiva. Lo spettro del 16 dicembre è dunque quello di un nazionalismo sempre più estremista e di un populismo anti-sistema impregnato di xenofobia. A intercettare la protesta si candida il neonato «Partito per la restaurazione del Giappone» (Jrp), fondato dal giovane sindaco di Osaka, Toru Hashimoto, in cui è confluito il neonato «Partito del Sole» del vecchio sindaco di Tokyo, Shintaro Ishihara. Il primo ha 43 anni, il secondo 80, ma un’intuizione li unisce: i giapponesi sono stanchi di essere i democratici impoveriti dell’Asia e vogliono ricominciare ad essere i capitalisti più ricchi di questo pezzo di Occidente. Slogan da rivolta: stop al centralismo, basta tasse, fine del pacifismo, cambio della Costituzione, via libera agli interessi nazionali, guerra alla Cina e addio all’abbandono dell’energia atomica.
Uno shock, ma gli elettori, anti-cinesi all’80%, sembrano convinti. I sondaggi danno il «Jrp» all’11-15%, diventerà  la terza forza politica e si candida a governare con i liberali, trascinandoli ancora più a destra. Toru Hashimoto, descritto come l’«Orban giapponese», si definisce «un vero rottamatore», mentre gli avversari ribattezzano la sua azione «Hashism», mix tra il cognome e il termine «fascismo». È famoso per aver vietato i tatuaggi ai dipendenti pubblici di Osaka e imposto l’obbligo di cantare l’inno nazionale in scuole e uffici. Shintaro Ishihara è noto invece come il «Le Pen» di Tokyo. Nel suo partito nessuno ha meno di 69 anni, invoca un Giappone dotato di bomba atomica, promette di riaccendere tutti gli impianti nucleari e ha cercato di acquistare l’arcipelago delle Senkaku, facendo esplodere lo scontro con Pechino. «La popolazione più vecchia del mondo – dice il politologo Koichi Nakano – vede vacillare le sicurezze del capitalismo. La sua paura si salda con la rabbia dei giovani senza lavoro: nell’estremismo nazionalista, gli anziani cercano una rivincita, i loro nipoti una rivolta».
A indebolire il «partito della restaurazione», fondato sul terrore economico, avanza un altro neonato schieramento, basato sull’allarme ecologico. Sono gli anti-nuclearisti di «Giappone Futuro» (Jfp), che dopo la crisi atomica di Fukushima dichiarano di rappresentare oltre il 50% dei giapponesi. Li guida la governatrice della prefettura di Shiga, Yukiko Kada, forte della sua opposizione alla riaccensione di 2 delle 53 centrali nucleari, chiuse dopo l’esplosione nei reattori di Dai-ichi. Erano accreditati del 10%, ma l’alleanza con «l’immortale» Ichiro Ozawa, 70 anni di cui 40 nella Dieta, detto il «distruttore», li ha fatti crollare nei sondaggi al 3-5%, spingendo gli indecisi oltre il 40%. La polverizzazione di una politica opportunista e inefficace, unita ad una drammatica crisi economica e alla paura dello strapotere della Cina, sono la ragione per cui il Giappone è prigioniero dell’incertezza e non ha alcuna voglia, né la possibilità , di pensare alle Feste. Le scelte reali che i giapponesi si preparano a fare sono però chiare. «Il voto anticipato – dice l’economista della Waseda, Masaru Kohno – sarà  un epocale referendum. Stabilirà  se il Giappone resterà  al fianco degli Usa o sceglierà  di salire sul treno della Cina, se sarà  ancora un’economia fondata sull’energia atomica oppure opterà  per fonti alternative, se rimarrà  una democrazia capitalista classica o sarà  costretto a forme più autoritarie di potere». Dopo il rinnovo delle leadership a Washington e a Pechino, quello di Tokyo è dunque un appuntamento cruciale anche per l’Occidente. Le prime tre economie globali, in poche settimane, avranno cambiato i loro dirigenti, mentre il 19 dicembre anche la Corea del Sud, quarto Pil asiatico, sceglierà  il nuovo presidente. Per la prima volta potrebbe essere una donna, la conservatrice Park Geun-hye, figlia dell’ex dittatore assassinato Park Chung-hee. Il potere dell’Asia cambia così profilo, pressato da dirompenti conflitti territoriali per il controllo dell’energia nel Pacifico, impegnato in una minacciosa corsa al riarmo e spaventato dai test atomici di Pyongyang. Sui mercati dell’Estremo Oriente si alza più forte il vento protezionista del nazionalismo e l’allarme suona anche negli Usa e nella Ue, che vedono crescere una massa dominante convinta che «un estremismo di fazione è oggi più risolutivo del vuoto moderato dei partiti». In Giappone la campagna elettorale si chiude domani, già  questa sera però i «sarari-men», a ristoranti, «pacinko» e karaoke, preferiscono la noia di casa. Tutti in silenzio, soli, davanti ai politici in tivù. Ancora promesse, sempre più seducenti. Pochi cedono all’illusione di credere: ma sognare un’ultima volta anche a Tokyo non costa nulla.


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