I ribelli avanzano verso Bangui

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«Ansia» è la parola che aleggia a Bangui, la capitale della Repubblica Centro Africana in merito all’avanzata dei ribelli del nord che hanno, in poche settimane, conquistato gran parte del paese, ultimo il centro minerario di Bambari, terza città  in ordine di grandezza. Mentre l’Onu fa evacuare il personale «non necessario» e gli Usa invitano i loro cittadini a fare altrettanto, i residenti francesi temono il peggio se i guerriglieri arrivassero nella capitale.
L’avanzata è opera della Seleka Coalition, formata da soldati appartenenti ai vari gruppi ribelli che, nel 2007, l’attuale presidente Francois Bozize aveva promesso, invano, di reintegrare nell’esercito nazionale, dopo gli accordi di pace. I ribelli denunciano che anche l’impegno di provvedere ad un sostegno economico per coloro i quali avessero deposto le armi, non è stato rispettato. Le voci su una possibile conquista di Bangui si susseguono contraddittorie: alcuni capi ribelli sostengono che non intendono farlo, se il presidente rispetterà  gli accordi. In questa situazione la comunità  internazionale, Europa in testa, appare senza una chiara visione di ciò che si dovrebbe fare, mostrando un arretramento drammatico rispetto all’analisi di ciò che avviene in questa parte del mondo. Da una parte c’è la Francia, che ha un piccolo contingente di circa 200 soldati nella capitale. Il presidente Hollande ha dichiarato che non interverrà  a favore del regime in carica: «I tempi dell’intervento diretto sono finiti» ha affermato, «la nostra presenza non serve a proteggere il regime ma i nostri compatrioti». Nei giorni scorsi gruppi di dimostranti hanno bruciato la bandiera francese e tirato pietre di fronte all’ambasciata; i manifestanti volevano che l’ex potenza coloniale intervenisse a favore dei ribelli, segno che sotto la cenere cova anche nella capitale un importante dissenso verso il presidente, che ha perso il potere con un colpo di stato nel 2003 e che a sua volta viene dai ranghi dell’esercito. D’altra parte anche l’Unione Europea ha una contingente di circa 400 uomini con il mandato di proteggere i civili, e dunque la sovrapposizione tra i due mandati, francese ed europeo, appare evidente e foriero di ulteriori indecisioni. La situazione è invero molto confusa, dato che Bozize chiede da giorni un intervento sia della Francia sia dell’Unione Europea a sostegno delle sue truppe per sconfiggere la ribellione; le motivazione del presidente sono che la ribellione può facilmente contagiare sia il vicino Ciad, che ha problemi simili e la cui instabilità  è acclamata, sia il Sudan, provato da decenni di guerra civile ed oggi ancora in tensione per la mancata definizione delle frontiere tra il Nord ed il Sud.
A fronte di questa crisi regionale, dunque, appare chiaro come, ancora una volta, non vi sia alcuna politica estera europea «preventiva» degna di questo nome e come la Francia, sino a Jacques Chirac impegnata a sostenere la sua politica di ingerenza nel «pré carré africaine», lascia un vuoto che sembra essere a beneficio degli interessi delle compagnie minerarie e diamantifere che, sin dai tempi di Bokassa, gestiscono il fiorente traffico clandestino dei diamanti. Si annuncia dunque una periodo di estrema turbolenza, un arco di crisi che partendo dalla Siria attraversa la Libia ed arriva ad interessare tutto il Maghreb ed oltre, includendo ormai Mali, Ciad, Sud Sudan e Repubblica Centro Africana. Certo le materie prime che interessano l’Occidente, materiali radioattivi inclusi, verranno comprati a minor prezzo, ma la politica europea non sembra considerare il maggior prezzo di vite umane che nessuna missione umanitaria sarà  mai in grado di salvaguardare.


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