Fatta a pezzi

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Bello no?», ci chiede, sorridendo, il professor Mohammed Hemedi, docente di geologia dell’università  palestinese «al Quds», descrivendo la vista che un giorno avrà  dall’appartamento che ha appena comprato e sta ristrutturando. Siamo alla periferia di Ezzariye, la Betania del Vangelo, e poco più in basso, a 2-3 km, si scorge Maale Adumim, la più grande delle colonie costruite da Israele nei Territori palestinesi che occupa dal 1967. «Finalmente avremo una casa più spaziosa e accogliente, da dove peraltro potremo spostarci più facilmente verso Gerusalemme» , aggiunge Hemedi in riferimento ai problemi di movimento, studio e lavoro che la sua famiglia ha avuto dopo la costruzione del Muro israeliano che ha separato la zona araba della Città  Santa dal sobborgo di Abu Dis dove ha vissuto sino ad oggi con moglie e due figlie. Sui progetti di vita di Hemedi grava l’ombra del premier israeliano Netanyahu. Hemedi prova a dimenticare le notizie che ha letto e ascoltato nei giorni scorsi. La sua bella casa rischia di diventare un’altra prigione, solo più dorata dell’abitazione dove ha vissuto sino ad oggi ad Abu Dis. Davanti a Ezzariye, nel giro di un paio d’anni, non appena le carte completeranno il loro percorso tra i vicoli della legalità  israeliana in materia di colonizzazione (in violazione delle risoluzioni internazionali), vedrà  la luce la «Grande Gerusalemme», un progetto nel cuore e nei cassetti delle scrivanie dei leader israeliani da una ventina d’anni, o forse da 45 anni, dal giorno immediatamente successivo a quello all’occupazione della zona araba di Gerusalemme. Il via libera del governo Netanyahu alla «Grande Gerusalemme» è giunto la sera stessa in cui, il 29 novembre, i palestinesi festeggiavano il voto favorevole dell’Assemblea delle Nazioni Unite che ha accolto la Palestina come Stato osservatore. Una rappresaglia, anzi, una vendetta, del primo ministro che nei giorni successivi ha resistito a condanne e critiche giunte da più parti. Israele va avanti. Visto che nessun paese europeo o occidentale non l’ha mai colpito o lo colpirà  con sanzioni vere per la sua politica di colonizzazione, ora costruirà  altre migliaia di case per settler . In particolare nel corridoio noto con la sigla E1, in modo da collegare definitivamente Gerusalemme a Maale Adumim. Sarà  così compromessa la viabilità  di un futuro Stato palestinese, uno Stato vero, non come quello sulla carta accettato dall’Onu e troppo celebrato dall’Olp e l’Anp. Se il professor Hemedi oggi, con il muro di Abu Dis, impiega circa un’ora per raggiungere in automobile Gerusalemme, girando intorno alla colonia di Maale Adumim, e poco più per andare a nord verso Ramallah percorrendo un tratto della strada che scende verso la Valle del Giordano, in futuro correrà  il rischio di fermarsi poco fuori Ezzariye, davanti a nuove barriere e posti di blocco israeliani. Abu Dis, Zaim, Ezzariye e altri sobborghi palestinesi si ritroveranno chiusi in una prigione di cemento. Più di tutto, se non sarà  fermato questo progetto – la «Porta d’Oriente di Gerusalemme» come lo chiamano gli israeliani -, la Cisgiordania si ritroverà  divisa in almeno due cantoni. Uno settentrionale che comprende le città  di Ramallah, Nablus e Jenin, e uno meridionale con Betlemme e Hebron. Dovrebbe poi sorgere un terzo cantone, a nord-ovest – con le città  di Qalqilya e Tulkarem – già  ora schiacciato da blocchi di colonie israeliane, in particolare quello della regione di Ariel che, lungo il percorso del Muro, arriva a lambire Nablus. Per andare da nord a sud del loro Stato – ammesso che un giorno veda la luce – gli abitanti dovranno passare attraverso una fascia di territorio sotto controllo israeliano. Per capirlo basta osservare già  oggi Maale Adumim, trasformata in una vera città  con negozi, centri commerciali, scuole e campi sportivi. Il sindaco della colonia preme da anni per congiungersi a Gerusalemme e non vede l’ora di mettere le mani sui 12 kmq della zona E1. Nel progetto ci sono anche ragioni demografiche. Israele deve costruire cinquemila case ogni anno, centomila in 25 nella zona Est di Gerusalemme e nei suoi sobborghi, se vuole vuole mantenere sul 70 a 30 la percentuale di ebrei e palestinesi nella città  Santa. In realtà  già  oggi, nonostante i diritti negati, le espulsioni, le vessazioni e le residenze revocate, i palestinesi sarebbero ben oltre quella soglia. «Non sono semplicemente altre case in una collina della Cisgiordania», ha perciò detto Daniel Kurtzer, ex ambasciatore Usa a Tel Aviv. «È una delle aree più sensibili», ha aggiunto, provando a spiegare perchè gli Stati Uniti, che pure hanno votato con Israele contro lo Stato di Palestina e riaffermano il loro impegno per la sicurezza dello Stato ebraico, si oppongono, da anni, al piano varato dal governo israeliano. La nuova zona infatti chiuderebbe a Est il progetto della colonia Har Homa (tra Gerusalemme Est e Betlemme), la cui costruzione da parte di Netanyahu, a partire dal marzo 1997, aveva già  causato la fine del negoziato cominciato a Oslo quattro anni prima. Netanyahu conta di costruire subito altre 1700 case per coloni anche a Ramat Shlomo, un altro insediamento con una funzione strategica per gli obiettivi di Israele. Questi progetti non piacciono soltanto alla destra. Ad eccezione di poche voci dissidenti e dell’opposizione dei partiti arabi (che rappresentanto la minoranza palestinese in Israele), esiste un ampio consenso all’espansione di Maale Adumin, delle colonie vicine e alla costruzione nel corridoio E1. La leader laburista Shelly Yachimovich ha sì contestato i tempi scelti dal governo per l’annuncio dei piani edilizi, ma ha anche detto che «costruire nei quartieri ebraici di Gerusalemme non è sbagliato». I «quartieri» sono le colonie, naturalmente. Anni fa Netanyahu dichiarò che se Har Homa non fosse stata costruita, la battaglia di Gerusalemme «sarebbe stata perduta». Ora il premier conduce un’altra battaglia, anzi una guerra. Per realizzare un disegno che in realtà  non è suo, non della destra, ma dell’ex dirigente laburista Yigal Allon, autore dopo l’occupazione dei Territori palestinesi, di quello che è passato alla storia come il «Piano Allon». Israele in sostanza deve annettersi tutta la regione di Gerusalemme e le colonie circostanti, assieme alle fonti idriche e alle strade. Un piano che in Israele va bene alla destra e al centrosinistra, tutti uniti nel negare i diritti dei palestinesi anche su quel 22% della loro terra dove vorrebbero proclamare un piccolo Stato.


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