Facce dietro la crisi globale del clima

by Sergio Segio | 7 Dicembre 2012 16:06

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Intanto i gruppi ambientalisti continuano a fare nomi e cognomi di chi rema contro. Imperi multinazionali e governi.
Ad esempio, come sono messi i paesi della regione araba rispetto agli obblighi- internazionali o morali – di riduzione delle emissioni di gas serra? Male. Da Doha, la sezione di Greenpeace che si occupa del mondo arabo spiega che il Qatar, membro dell’Opec, a parte le facili offerte di contributi finanziari non si è dato alcun obiettivo di riduzione delle sue emissioni che, pro capite, sono le più elevate al mondo (per questo ospitare una conferenza sul clima a Doha è come collocare una banca del sangue nel palazzo di Dracula).
L’emiro si scagiona sostenendo che le sue esportazioni di gas naturale liquefatto aiutano altri paesi a fuoriuscire dal carbone che è ancora più inquinante e climalterante. Il Qatar ha promesso di arrivare a coprire il 18% del fabbisogno interno di energia con il fotovoltaico entro il 2018 e ha annunciato che creerà  un proprio centro di ricerche sui cambiamenti climatici (mantenendo ben duecento ricercatori) in collaborazione con il noto Potsdam Institute tedesco. Ma Greenpeace incalza: ci si aspetta ben di più dal paese che oltretutto ha il Pil pro capite più elevato al mondo.
Troppo poco solari, queste ricche nazioni del Golfo, anche per il Programma Onu per lo sviluppo. Eppure dovrebbero dare l’esempio. Anche l’Arabia Saudita, principale produttore dell’Opec, non ha indicato alcun obiettivo di riduzione, pur avendo dichiarato possibili investimenti nel solare, nell’efficienza energetica nella diversificazione dell’economia (monocoltura petrolifera; e si stenta a capire come potrebbero essere altro). I sauditi comunque sono fermi nella loro convinzione che il mondo dipenderà  dai combustibili fossili ancora per decenni ma che accorgimenti tecnologici possono aiutare a tamponare le conseguenze negative. Per questo, Riyad punta sulla geoingegneria e per esempio sulla cattura e stoccaggio del carbonio, metodo che sta già  applicando nel più grande campo di petrolio al mondo, a Ghawar. Ma è tutto discrezionale. Abbastanza paradossalmente le monarchie petrolifere non fanno parte del gruppo di paesi che il Protocollo di Kyoto obbliga a riduzioni.
Altri paesi del mondo arabo – Medio Oriente e Nordafrica – si trovano più nei panni di vittima che di carnefice. Saranno infatti interessati da fenomeno come una riduzione delle piogge, temperature sempre più elevate, innalzamento dei mari secondo un altro rapporto della Banca mondiale pubblicato diffuso mercoledì a Doha. L’agricoltura subirà  gravi colpi, in paesi come la Tunisia e lo Yemen fra gli altri. Anche i flussi turistici si ridurranno a causa del caldo sempre più caldo (un quarto delle temperature record del 2010 è stato registrato nella regione).
Intanto Faces Behind a Global Crisis, un rapporto del gruppo statunitense International Forum on Globalization sostiene che le impasse presenti anche a Doha sono il risultato della potente lobby degli interessi petrolieri e punta il dito sui fratelli Charles e David Koch. Chi sono costoro? Sono i miliardari più ricchi del mondo, un impero da 80 miliardi di dollari. Hanno convinto le altre compagnie petrolifere – compresa Exxon – a minare la normativa Usa sul clima. Lunga vita ai sussidi fossili e all’estrazione di scisti bituminosi.
Insieme ad altri 50 ricconi del mondo, i Koch sono individuati come eminenze grigie anzi nero carbone.

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