Fabbrica America

by Sergio Segio | 10 Dicembre 2012 7:31

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NEW YORK. Il tasso di disoccupazione è ai minimi da quattro anni (7,7 per cento). Per tutto il 2012 la creazione di nuovi posti di lavoro viaggia al ritmo di 150 mila ogni mese. Ci sarebbe già  di che farci sognare. Ma dietro la ripresa americana c’è dell’altro: una rinascita della vocazione manifatturiera. Il revival del made in Usa è cominciato. A sorpresa, smentisce quella “regola ferrea” della globalizzazione che dagli anni Novanta ha imposto di delocalizzare i mestieri industriali verso paesi a basso costo del lavoro: in Asia, in Sudamerica, o nell’Est europeo. «Dai due ai tre milioni di posti di lavoro nei prossimi cinque anni», è il traguardo che il Boston Consulting Group considera realistico per l’industria americana (esclusi i servizi).
Posti di lavoro domestici, sul territorio nazionale: colletti blu, tecnici, ingegneri della produzione. Una svolta inattesa. Anche se Barack Obama la persegue dall’inizio del suo mandato, la missione di “reindustrializzare l’America” sembrava a molti una chimera. E invece sta accadendo, con protagonisti illustri. Apple annuncia che riporterà  alcune produzioni di computer negli Stati Uniti. Altre aziende informatiche l’hanno preceduta. Tutte le case automobilistiche qui hanno ripreso ad assumere da oltre due anni. C’è perfino un ritorno di marche di abbigliamento, le prime che fuggirono verso l’Estremo Oriente. Elettrodomestici. Mobili. Macchinari. L’elenco dei settori contagiati da questa “ondata patriottica” è lungo. Ma le considerazioni politiche e d’immagine – che pure pesano – non bastano a spiegare questi segnali d’inversione di tendenza. Vent’anni dopo il trattato Nafta (liberoscambio nordamericano) e il mercato unico europeo che segnarono l’inizio della globalizzazione “versione 2.0”; undici anni dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, si sta aprendo una nuova fase? Per Harold Sirkin, che ha diretto lo studio per il Boston Consulting, «qualcosa sta cambiando nelle dinamiche dei costi relativi, coi salari cinesi che crescono velocemente, mentre i lavoratori americani mantengono una produttività  quattro volte superiore ». Il vantaggio di produttività  è l’effetto un elevato volume d’investimenti da parte delle imprese. Il risultato: secondo questa ricerca, gli Stati Uniti possono riportare a casa 100 miliardi di Pil solo nell’attività  manifatturiera.
È evidente la potenza simbolica di Apple. Per tante ragioni. Il colosso fondato da Steve Jobs oggi è la più grande società  del mondo per il suo valore in Borsa. È identificata con il meglio della tecnologia americana, la capacità  d’inventare e rinnovarsi continuamente, d’imporre trend e mode che contagiano il mondo, rivoluzionano il nostro modo di consumare informazioni, immagini, musica, o di comunicare fra noi. Proprio Apple, d’altra parte, aveva sancito in modo apparentemente irrevocabile la fine di una vocazione manifatturiera americana. Fa testo quella scritta che appare su tutti i suoi prodotti: “Designed in California. Assembled in China”. Come a dire: la Silicon Valley conserva una leadership nel progettare, concepire, disegnare. Ma la produzione di oggetti appartiene ad altre zone del mondo. Proprio Tim Cook, il successore di Jobs e attuale chief executive, fu il cervello strategico della “catena asiatica” di produzione, tra la Foxconn di Shenzhen e altre basi operative a Taiwan. Perciò colpisce che oggi sia Cook ad annunciare un primo investimento di 100 milioni per riportare negli Stati Uniti alcune produzioni («non solo assemblaggio », precisa) di computer Mac. Proprio quelli che abbandonarono la cittadina di Fremont (a sud di san Francisco) dieci anni fa. «Abbiamo la responsabilità  di creare occupazione nel nostro paese», dice Cook. La frase può suscitare il sospetto che si tratti di un’operazione politica, per ingraziarsi un’Amministrazione Obama rinvigorita dalla seconda vittoria elettorale. Tanto più che l’immagine di Apple è stata macchiata dai ripetuti scandali del suo fornitore cinese (abusi contro gli operai, catene di suicidi, scioperi). Ma gli esperti spiegano che c’è anche una logica economica dietro il “ritorno a casa”. Eventi come lo tsunami in Giappone o le inondazioni in Tailandia hanno messo in evidenza la fragilità  di una catena logistica troppo dilatata. Dal controllo di qualità  alla flessibilità  nel rispondere a nuove condizioni di mercato, la prossimità  al consumatore torna ad avere delle attrattive.
Se Apple fa sempre notizia, altri l’avevano preceduta, nel suo stesso settore. Hewlett Packard, che vende 50 milioni di personal computer all’anno, ne produce una parte a Indianapolis. «È importante poter soddisfare gli ordinativi del cliente americano in cinque giorni», spiega il suo vicepresidente Tony Prophet. Il leader mondiale dei microprocessori, Intel, ha fabbriche in Oregon e Arizona. Perfino la cinese Lenovo, che rilevò la divisione pc di Ibm, di recente ha assunto 115 operai come avanguardia di una nuova produzione in North Carolina. È un’inversione netta rispetto al 2008, quando alla vigilia della prima elezione di Obama la texana Dell chiuse la sua fabbrica di Austin per delocalizzare in Cina.
Altri settori confermano la tendenza. General Electric ha assunto operai qui in America per produzioni che vanno dai frigoriferi alle lavastoviglie, dalle lavatrici alle caldaie. Continental investe 500 milioni per una nuova fabbrica di pneumatici nella South Carolina, da 1.600 posti. La Ford ha assunto di recente altri 1.200 operai nel Michigan. Volkswagen e Honda hanno aumentato i loro organici nel Tennessee e nell’Indiana. Nel settore dell’auto incidono le concessioni salariali fatte dal sindacato metalmeccanico durante l’ultima crisi. Alla General Motors e alla Chrysler la confederazione United Auto Workers ha accettato che i nuovi assunti guadagnino poco più della metà . Ma il rilancio delle assunzioni è stato possibile anche perché la “cura Obama” (auto più piccole e “verdi”, tutela del potere d’acquisto attraverso le manovre anti-recessive) ha fatto ripartire il mercato di consumo, compresi gli acquisti di vetture.
Il caso più clamoroso è nell’abbigliamento. Sulle orme di American Apparel, la startup di San Francisco American Giant diventa l’altra marca “tutta made in Usa”. Grazie a una distribuzione fatta esclusivamente su Internet, taglia i costi d’intermediazione e così diventa competitiva con le fabbriche delocalizzate in Asia. Cotone all’antica, zero poliestere, con queste ricette American Giant ha un tasso di redditività  superiore a giganti come Levi’s. Pubblicizza maglioni “fatti per durare una vita”, e ha fabbriche solo dentro i confini nazionali. Fa impressione perché il tessile fu il pesce-pilota nelle delocalizzazioni.
La Banca mondiale conferma che qualcosa sta cambiando nei rapporti di forze e nell’equazione della competitività . La sua classifica sulle nazioni “dov’è più facile fare impresa” vede una rimonta degli Stati Uniti, mentre regrediscono India e Brasile. Tra i fattori chiave: il costo dell’energia continua a calare negli Stati Uniti; l’automazione riduce l’incidenza dei salari; l’immigrazione negli Stati Uniti ringiovanisce la forza lavoro e al tempo stesso garantisce una crescita costante della platea dei consumatori. Non guasta la politica del dollaro debole perseguita dalla Federal Reserve, che rende meno care le esportazioni made in Usa.
Qualche merito va pur dato a Obama, che della “ricostruzione industriale dell’America” fece una bandiera già  quattro anni fa. «Le politiche contano – dice il capo dei suoi consiglieri economici Gene Sperling – perché dal sostegno alla ricerca tecnologica fino agli investimenti in infrastrutture, abbiamo fatto di tutto per aiutare questo circolo virtuoso». Il ritorno dell’industria fa effettovalanga, attira emuli, inverte un processo di decadimento dell’intero tessuto industriale. Come sostiene Jared Bernstein che è stato il consigliere economico del vicepresidente Joe Biden: «Nulla è più distruttivo che lasciare milioni di lavoratori ai margini del processo produttivo, esposti al logoramento della loro capacità ».

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