Eravamo tre Ulisse al pub

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Con queste parole, nel 1922, Ezra Pound salutava la costellazione di «vortici» incarnata nei personaggi dell’Ulisse appena pubblicato: «Joyce parla, se non con la voce degli uomini e degli angeli, almeno in un linguaggio multiplo e plurilingue, un linguaggio di ragazzini, di predicatori ambulanti, di uomini “gentili” o volgari, di ubriaconi e di imprenditori di pompe funebri». Altro che libro illeggibile, come lo aveva bollato buona parte della critica, insistendo sull’artificioso esperimento di rifare l’Odissea nella Dublino del 16 giugno 1904. «Joyce ha rappresentato l’Irlanda sotto la dominazione inglese»; eppure, «i dettagli della carta topografica sono locali», mentre Leopold Bloom — il novello Ulisse ebreo irlandese — «è di tutti i luoghi». Tutto è fugace nella riscrittura joyceana dell’Odissea. Ma proprio per questo Dedalus, Bloom e gli altri personaggi sono antichi e sempre presenti — asseriva Pound — «come la Venere di Milo».
D’altra parte, che cosa si dovrebbe tributare all’eroe della saga joyceana? Come dice la voce narrante del romanzo, «doni di stranieri, gli amici di Ognuno», ma anche «una ninfa immortale, la bellezza sposa di Nessuno». I ricordi scolastici del IX Libro dell’Odissea rimandano allo stratagemma con cui l’astuto Ulisse salva sé e i propri compagni dall’appetito e dall’ira del cannibale Polifemo: nel presentarsi al «ciclope gagliardo», aveva declinato le proprie generalità  come Nessuno; e Polifemo, privato infine del suo unico occhio (mentre Ulisse e i suoi si stanno mettendo in salvo), chiama invano in aiuto i confratelli che vivono «nelle spelonche e sulle cime ventose». L’accecato si lamenta, infatti, che un certo signor Nessuno «m’uccide d’inganno e non con la forza», solo per sentirsi rispondere dagli altri che «se nessuno ti fa violenza e sei solo», devi semplicemente accettare il male che la divinità  ha decretato per te.
Joyce traduce e stravolge genialmente l’intuizione di Omero: Bloom è tutti quanti noi, ciascuno esule e straniero anche a casa propria, persino coi propri cari, sempre in cerca di un completamento a cui nessuno può davvero pervenire. Questa idea di un sentiero ininterrotto, di un viaggio senza termine alla ricerca di una perfetta fioritura umana, magari in direzioni contrastanti, è stata troppo spesso associata a un vago ideale romantico tipico della giovinezza. Qui si rivela, invece, l’altra faccia della maturità  (se non della vecchiaia) dell’eroe dal multiforme ingegno che Joyce ha fatto diventare «papà  Prudenza», come lo chiama per scherno la teppaglia di Dublino. Da qualche parte lo attende la sua ninfa immortale, ma forse gli sarà  impossibile possederla pienamente.
Del resto, già  nel 1914, parlando delle varie «maschere» che aveva via via indossato nel suo lavoro letterario, Pound aveva annotato: «Nella ricerca di se stesso si brancica, si trova qualche verità  apparente. Si dice: Io sono questo, quello o quell’altro, e appena pronunciate le parole si cessa di essere quella cosa». Ogni maschera costituisce appunto un «vortice», cioè «un nodo o groviglio di radiazione» che lega l’Io al mondo, senza pretendere di costituire qualcosa di definitivo. Anzi, il viaggio verso la conoscenza di sé è un’esplorazione senza fine di questo universo di maschere; non diversamente dalla ricerca scientifica, in cui conta di più la tensione inquieta verso la verità  che il possesso sicuro di essa, come dichiareranno alcuni degli spiriti anticonformisti del Novecento: fisici come Albert Einstein, matematici come Bruno de Finetti, filosofi come Karl Popper.
Dalla parte di Joyce, la prosa di Ulisse è poesia della bellezza. «In questo super-romanzo», diceva ancora Pound, Joyce «si è accinto a creare un Inferno e ha creato un Inferno… Con un semplice rovesciamento, egli ha riportato nella realtà  le Furie, le sue flagellanti signore del Castello. Telemaco, Circe, il resto della compagnia ulissica gradualmente s’impongono nella coscienza del lettore, con maggiore o minore rapidità  a seconda che egli conosca bene o male Omero». Questa è solo «un’impalcatura, un mezzo per costruire che è giustificato dal risultato: un vero e proprio trionfo di forma, un saldo schema fondamentale con continue intessiture e arabeschi», dove persino ogni dettaglio del male sparso nel mondo si trasfigura in «tenebra che splende nella luce». Anche Pound aveva fatto di Ulisse il punto di partenza per il viaggio della mente descritto nei suoi Cantos. Ma non aveva perdonato all’eroe di Omero la disinvoltura con cui aveva sacrificato i propri compagni nella conquista di provvisori traguardi, anche se il poema omerico iniziava rammentando il dolore e la delusione di Ulisse per non essere riuscito a salvarli. Pound, invece, nel Canto XX quasi rinfaccia all’eroe greco (e al suo cantore) che costoro, diversamente dal capo, non hanno avuto per compagna di letto Circe, né hanno potuto ascoltare la melodia delle Sirene, né sono stati nutriti con i cibi sopraffini di Calipso, né sono tornati a vedere Itaca: «Dato! Cosa gli fu dato? Cera per gli orecchi», e pure il sepolcro nel profondo mare «color del vino»! Alla condanna di Pound si contrappone l’assoluzione di Ulisse da parte di «Joyce il commediante» (come è definito anch’egli nei Cantos): Bloom non cerca bagni di sangue, ma comprensione.
Supponiamo allora che, non visti, per una sorta di magia i «tre poeti» — Omero, Pound e Joyce — compaiano insieme in uno di quei pub di Dublino che talvolta possono ricordare la spelonca oscura del Ciclope. Per esempio il locale di Bernard Kiernan, ove Bloom, nel corso del suo peregrinare, tiene testa ai ciclopi irlandesi, tra scommesse ippiche, pinte di birra e bicchieri di whiskey. Quando viene schernito per la sua ascendenza, trova il coraggio di ribattere che grandi musicisti come Mendelssohn, così ammirati dagli irlandesi colti, o uno dei maggiori filosofi come Spinoza erano ebrei, «e pure il Salvatore era ebreo, suo padre era ebreo. Il vostro Dio». Scamperà  a stento alle botte di chi vuole cambiargli i connotati e, rifugiatosi rapidamente in un calesse, riuscirà  a evitare di stretta misura di essere colpito da una scatola di latta che rimbalza rumorosamente per la via, con la plebaglia lì a gridare e a ridere. Ma nella parodia joyceana pare quasi l’ascensione del profeta Elia al cielo, «verso la gloria dello splendore, a un angolo di quarantacinque gradi sopra il Donohoe’s di Little Green Street, veloce come uno schiocco di frusta». Buon lettore di Spinoza (tiene sulla mensola di casa anche una raccolta di Pensieri del filosofo), Bloom ha smesso gli omerici panni «di alieno vendicatore, giustiziere di malfattori, crociato nero», in cambio dell’orgoglio di chi ha saputo dimostrare che è bene restar saldi contro ogni forma di oppressione, pur sotto un cielo in cui si dispiegano non più l’antica divinità  bensì solo «l’apatia delle stelle». Benché i fantasmi dei morti tornino qualche volta nella memoria a visitarlo, Leopold è degno della battuta del filosofo che più ama. Etica, Parte IV, Proposizione 67: «L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita».


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