Dimissioni programmatiche

by Sergio Segio | 22 Dicembre 2012 9:18

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Mario Monti ha rimesso l’incarico al presidente della Repubblica intorno alle 19.30 di ieri sera. Le sue dimissioni sono «irrevocabili». Dal punto di vista istituzionale il premier non è mai stato sfiduciato dal parlamento, anzi, ha incassato proprio ieri la sua ultima fiducia alla camera sulla legge di stabilità . Si concludono così nel paradosso i 13 mesi della «strana maggioranza» a sostegno del governo «del presidente» (Napolitano).
Eppure, caduto immacolato e per scelta propria, il professore forse ha notato la copertina del manifesto di ieri e dopo la messa natalizia con i dipendenti di palazzo Chigi continua a puntare il dito contro il Pdl: «Questo governo non è caduto per colpa dei maya». «Non è una parentesi da concludere ma un punto da cui partire», specifica il ministro Riccardi in un editoriale su Famiglia Cristiana. Verso dove ancora non è chiaro. Da senatore a vita Monti non può candidarsi in una lista ma domani alle 11, nella conferenza stampa di fine anno, farà  capire o no se sarà  il «capo della coalizione» neodemocristiana (difficile) oppure si limiterà  come un beppe grillo qualsiasi a concedere «logo» e programma in franchising alle varie anime che si agitano al centro degli schieramenti. In ogni caso, sarà  una decisione pericolosa. Se si candida di fronte agli elettori come prossimo premier e poi arriva terzo, il Professore dovrà  ridimensionare di molto le sue aspettative per il futuro (si scordi il Quirinale, lo avvisa ruvido Berlusconi). Se non si candida, invece, le 2-3-4 liste centriste si spappoleranno sotto il peso dei vari brand (Casini, Fini e Montezemolo) fin qui non amalgamabili facilmente e di scarsissimo appeal elettorale senza un «federatore» che ne nasconda i limiti. Alla vigilia del momento della verità , dunque, le quotazioni che si candidi in prima persona sono in ribasso. Mentre salvo sorprese scenderanno in campo molti ministri del governo «tecnico», tra cui Passera, Profumo, Balduzzi, Clini.
Che si presenti o no, in ogni caso, la «mission» del professore è ormai chiara: arginare l’estremismo berlusconiano e condizionare in ogni modo i margini di manovra del Pd. Impedendo a Bersani – l’unico con cui Monti potrà  davvero dialogare dopo il voto – di sbandare a “sinistra”. Nei discorsi di questi giorni (a Melfi soprattutto) il premier è stato chiaro: l’agenda della prossima legislatura non è “sua” ma è stata fissata da Europa e mercati (qui la sintonia con Napolitano è totale). Per questo a palazzo Chigi immaginano in prima battuta un fischio d’avvio con una sorta di «manifesto» programmatico: impegni «sobri e seri» rivolti a tutti i partiti. Se la maggior parte del Pdl farà  spallucce, le sirene del rigore sono pericolose soprattutto per un Pd spaccato in due da oltre un anno sull’agenda montiana. E ieri a Bersani sono fischiate le orecchie quando ha sentito, nel discorso di commiato di Walter Veltroni alla camera, il riconoscimento del lavoro «importante» svolto dal professore in questa legislatura.
Secondo lo staff di palazzo Chigi, il professore «non ha ancora deciso», ma si rileva che più che candidarsi ama essere «chiamato». Magari dopo aver messo zizzania un po’ a destra e tanto a sinistra. Ma al di là  delle fantasie dei retroscena anticipati, il proclama urbi et orbi e l’elezione per lo spirito santo sembrano eventi più adatti a un papa che a un dirigente politico. I voti poi vanno presi nelle urne più che negli editoriali dei giornali Fiat. Per questo il professore non scopre ancora le sue carte.
Oggi, dopo brevi consultazioni soltanto formali, Napolitano scioglierà  le camere. E il conto alla rovescia per la presentazione delle liste partirà  sul serio. Rosolati dal dubbio Monti sì-Monti no, i vari pezzi del puzzle centrista devono iniziare ad andare a posto da domani, quando il premier parlerà  la mattina e Montezemolo (altro big molto amato dai media ma mai pesato nelle urne) il pomeriggio.

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