by Sergio Segio | 19 Dicembre 2012 13:39
Lo spettacolo offerto dagli altri partecipanti alla corsa, vecchie volpi e nuovi furetti, si fa di giorno in giorno più increscioso. Si capisce che, al confronto, esitazioni e compromessi del Pd si mostrino molto più veniali e dunque accettabili. La questione è se basti invocare questa vistosa differenza relativa, o valga la pena di perseguire più nettamente scelte indipendenti dal paragone coi concorrenti. Prendiamo l’affare delle deroghe e del 10 per cento del “listino del segretario”. Le percentuali c’entrano, e possono sembrare più o meno ragionevoli. Poi però c’è il merito. Se deroghe e listino servissero soprattutto a conservare equilibri di apparato e piazzare persone, indebolirebbero assai la novità delle primarie per i candidati al parlamento. Oltretutto i tempi così accorciati – non certo per scelta del Pd – favoriscono i candidati ereditieri di voti, gli amministratori ecc. Nel giudizio sulla volontà del Pd di sconfessare nei fatti il meccanismo indecente della legge elettorale conterà l’esito delle primarie, ma anche la composizione delle liste riservate. Non sarebbe bello che l’innovazione venisse soprattutto dalle primarie, e la conservazione soprattutto dai listini; per giunta, dei listini è più direttamente responsabile il segretario.
Ho orecchiato una storia ferocemente istruttiva, e la giro a Bersani, per il caso che non la conoscesse. Riguarda una zona tradizionalmente “forte” della Toscana, in cui si era svolta un’assemblea di militanti del Pd in preparazione delle primarie per la candidatura alla presidenza del Consiglio, conclusa con un voto- consultazione. Fra i 55 partecipanti, più o meno l’insieme dei membri attivi e variamente titolati, 53 si erano detti per Bersani, 2 per Renzi. Al voto, che si è tenuto nel luogo della stessa sezione, Renzi ha stravinto, e a Bersani sono andate 53 preferenze. Ora, si è trattato di un caso estremo, ma, benché per eccesso, rivelatore. Le prossime elezioni decideranno – speriamo – di un’intera e importante legislatura:
che le candidature siano complessivamente governate dalla ricerca delle migliori capacità di donne e uomini, vecchi e giovani, e condizionate molto meno (non dirò: per niente affatto, siamo umani) dall’opportunità di sistemare alcune persone e accontentare alcune cordate, sarebbe un investimento lungimirante.
Aggiungo una cosa rispetto ai radicali, non motivata dall’urgenza dell’iniziativa di Marco Pannella. Nelle scorse elezioni politiche Veltroni, che ebbe molti meriti e commise alcuni errori, rifiutò un’alleanza con radicali e socialisti, e la stipulò invece con Di Pietro, il quale si impegnò a entrare nel gruppo del Pd all’indomani dell’elezione, poi si guardò bene dal tener fede alla parola e anzi giocò a oltranza a parassitare e infilzare il Pd. Veltroni candidò bensì dei singoli radicali nelle liste del Pd. Nove di loro entrarono in parlamento (su Pannella c’era stato un veto) e costituirono una “delegazione” nel gruppo del Pd. Durante la legislatura l’uno e gli altri, Pd e Radicali, in modi e momenti diversi, hanno fatto del loro peggio per pregiudicare un impegno comune, ben al di là (è la mia opinione) dei dissensi di merito, e soprattutto per questioni che dirò caratteriali. Dirò anche che la questione caratteriale non riguarda, nella politica italiana, il solo Marco Pannella, come si finge di pensare: lui la dissimula meno, anzi la ostenta. Ora Pannella sta cercando in maniera estrema di dare a un costante e imperterrito impegno su carceri e giustizia un improbabile sbocco elettorale. Indipendentemente dal quale, non mi è chiaro – a me e a molti, direi – perché non accogliere i radicali nella coalizione che ha giustamente compreso i socialisti. La risposta migliore punterebbe ancora una volta sull’incidente caratteriale: vacci tu a fare una riunione con Pannella. La migliore, dico, perché ce n’è un’altra. Che i radicali, con le loro manie sul fine vita e così via, siano incompatibili con uno schieramento che riconosca l’apporto decisivo dei cattolici democratici. Questa è la risposta peggiore.
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