by Sergio Segio | 27 Dicembre 2012 11:56
A proposito delle istituzioni Monti si limita a ripetere alcune abusate parole d’ordine, rinunciando ad affrontare i temi di fondo che ci hanno portato ad una grave crisi costituzionale. Nella partita tra innovazione e conservazione – che, secondo Monti, dovrebbe sostituire la distinzione tra destra e sinistra – il professore si schiera decisamente sul secondo versante.
Ecco il passaggio fondamentale del documento: «La prossima legislatura dovrà affrontare, da subito, il tema di come rendere le decisioni più efficaci e rapide, come riformare il bicameralismo e ridurre i membri del Parlamento. Il primo atto del nuovo Parlamento deve essere la riforma della legge elettorale, così da restituire ai cittadini la scelta effettiva dei governi e dei componenti delle Camere». Poche generiche righe addolcite da un po’ di demagogia accattivante.
Che senso ha infatti dire che le decisioni devono essere più efficaci e rapide. C’è qualcuno che le vorrebbe inadeguate e lente? Se si vuole uscire dalla pura petizione di principio il problema mi sembra quello di indicare in che modo si vuole raggiungere l’obiettivo di una maggiore capacità decisionale. È qui che si misura le distanze tra innovazione e progresso (ma anche quella tra destra e sinistra).
Per circa un ventennio ha dominato l’idea che alla decisione si dovesse sacrificare tanto la forma quanto la sostanza della democrazia rappresentativa. Le procedure parlamentari e i diritti costituzionali come impaccio. Il Parlamento ridotto a camera di registrazione della volontà espressa al di fuori di esso, il circuito decisionale che è venuto sostanzialmente a coincidere con la volontà dei leader politici, la dialettica politica che ha reso muta l’opposizione per sublimarsi in una lotta fratricida all’interno di maggioranze sempre più litigiose e divise. Tutto ciò ha accresciuto il peso dei Governi sbilanciando l’equilibrio dei poteri, senza peraltro rendere più appropriate – almeno sul piano costituzionale – le sue decisioni. In questo il governo Monti ha rappresentato il massimo della conservazione. Proseguendo sulla strada della concentrazione dei poteri in capo all’esecutivo, tacitando il Parlamento, adottando quasi tutti gli atti normativi con procedure d’urgenza. Sarebbe ora di prendere atto del fallimento delle strategie decisioniste per porsi finalmente il problema di come rendere la nostra democrazia più efficiente nel nome della costituzione. Restituendo un ruolo all’organo della rappresentanza popolare: nel nostro ordinamento solo il Parlamento può «rendere le decisioni più efficaci e rapide». Da qui passa la divisione tra conservatori e innovatori. Monti, per gli atti che ha compiuto sino ad ora, non sembra mostrarsi sensibile alle ragioni dell’innovazione, c’è qualcuno a sinistra che le vuole sostenere?
La richiesta di riformare il bicameralismo non appare granché originale. In Assemblea costituente fu formulata la proposta più innovativa, quella del monocameralismo. Dopo di allora i progetti di modifica del sistema bicamerale sono stati infiniti senza mai giungere a una revisione dell’assetto parlamentare. Se si vuole passare dagli slogan ad effetto alla determinazione di una prospettiva concreta di cambiamento diventa necessario, da un lato, interrogarsi sulle resistenze che sino ad ora hanno impedito di differenziare le funzioni esercitate paritariamente dalle due camere, dall’altro, proporre un modello realmente innovativo.
Se si volesse cambiare, nel solco della trasformazione genericamente auspicata dalla stessa agenda Monti, per attuare quel «federalismo responsabile e solidale che non scada nel particolarismo e nel folclore», si dovrebbe avere il coraggio di sostenere riforme profonde come l’introduzione di una Camera di rappresentanza delle regioni, concentrando la rappresentanza popolare, invece, nella sola Camera dei deputati. Troppo ardito per il moderato Monti, ma per la sinistra sarebbe una sfida che le permetterebbe di uscire dalla retorica federalista dominante negli ultimi anni, innovando finalmente un assetto istituzionale (il bicameralismo perfetto) che non le è mai stato congeniale, lasciando ai conservatori – Berlusconi, Lega, Monti – il piccolo cabotaggio in difesa dello stato di cose presenti.
La riduzione dei membri del Parlamento è diventata il mantra ripetuto come una monotona cantilena da tutti gli esponenti politici, e recitato dai numerosi sacerdoti dell’antipolitica. Anche in questo caso, per passare dalle vuote parole ai propositi politici concreti, bisognerebbe andare più a fondo, chiedendosi a quale fine ridurre il numero dei parlamentari. Secondo alcuni un minor numero di parlamentari rappresenta in fondo null’altro che una conseguenza della perdita di peso della rappresentanza politica: ad un Parlamento svuotato di funzioni non servono certo tanti componenti. Nella logica liberale e tecnocratica, cui s’ispira con orgoglio Mario Monti, pochi parlamentari appaiono funzionali al ritorno di una oligarchia governante. Una proposta, dunque, che appare non tanto conservatrice quanto regressiva.
Ben diverso sarebbe immaginare di ridurre il numero dei parlamentari al fine opposto di ridare dignità e forza al Parlamento. È vero che, nell’ambito di un riassetto complessivo dei lavori parlamentari può essere ridotto il numero dei componenti, ma si tratta anzitutto di ripensare le modalità di esercizio del libero mandato. In tale diversa prospettiva, un numero non troppo esteso di rappresentanti della nazione è auspicabile perché può accrescerne autorevolezza e ruolo. Ma un numero che deve essere comunque sufficiente perché nel Parlamento non ci si deve tanto limitare a votare o a discussioni generali da svolgersi in Assemblea, bensì è necessario garantire l’approfondimento istruttorio e il confronto nelle Commissioni, ove si svolge il lavoro più impegnativo, anche se meno visibile, di un organo politico-rappresentativo. Se si vuole essere realmente innovatori, anche in questo caso, si tratta di ripensare dalla fondamenta il sistema della rappresentanza, alla sinistra spetterebbe di farsi carico della visione complessiva che assegna alle singole proposte un loro senso storico.
L’ultima indicazione di riforma istituzionale proposta dall’Agenda Monti è poi il massimo dell’indeterminatezza, non esente da una buona dose di ipocrisia. Il primo atto del nuovo Parlamento – si legge – deve essere la riforma della legge elettorale.
Quale legge elettorale? Sono decenni che ci si scontra sul tipo di legge elettorale senza giungere ad un accordo tra le forze politiche. Da che si è voluto abbandonare un sistema di rappresentanza semplice e lineare – il proporzionale – ci si è inerpicati nella più nebulosa modellistica. Il calcolo di convenienza delle diverse forze politiche è sempre prevalso in ogni discussione sulla riforma e ha portato all’impotenza interessata: nessuno difende l’attuale legge elettorale, ma se non si riesce a cambiare nessuno si straccia le vesti. Il vero problema è che tutti sono conservatori in materia elettorale, poiché nessuno si preoccupa più della vera posta in gioco, nessuno vuole fare più i conti, andando oltre i propri pur legittimi interessi di parte, con le logiche della rappresentanza popolare.
Non basta dire che è necessario restituire ai cittadini il potere di scelta, si deve indicare se si vuole conservare un sistema maggioritario che ha innescato la progressiva perdita del valore della rappresentanza sino a ridurre al lumicino il sistema democratico parlamentare ovvero se si vuole innovare restituendo al popolo non solo il voto, né solo la scelta di chi deve governare, ma anche il potere di disporre di propri rappresentanti nelle istituzioni. Nulla vuol dire riformare il sistema elettorale, tutto è nell’indicazione di quale sistema si vuole adottare. Qui passa il discrimine tra i conservatori e gli innovatori. Monti da che parte sta? E la sinistra?
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