by Sergio Segio | 9 Dicembre 2012 8:57
Non si esclude il dolo per mano di concorrenti stranieri[1], che attraverso gente locale tentano di sabotare l’industria bengalese considerata il far west dell’industria tessile, ma la Clean Clothes Campaign[2] – o CCC nata nel 1989 per migliorare le condizioni e i diritti delle donne e degli uomini al lavoro nel settore tessile e dell’abbigliamento mondiale – è convinta che alcune grandi firme della moda abbiano dimostrato negligenza “per non aver preso contromisure efficaci a contrastare i problemi di sicurezza evidenziati da incendi precedenti, divenendo responsabili dell’ennesima tragica perdita di vite umane”. “Molti brand, infatti, sanno da anni che la maggior parte delle fabbriche in cui scelgono di produrre sono delle trappole mortali – ha spiegato Ineke Zeldenrust[3] della CCC – e il loro fallimento nell’adottare misure adeguate è una negligenza criminosa” che va ad aggiungersi all’ennesima perdita di vite umane, sacrificate sull’altare di un modello industriale che produce profitti per i grandi gruppi internazionali a discapito dei lavoratori impiegati senza diritti[4] nelle fabbriche per l’export. Questa situazione fortifica la mission di organizzazioni come la CCC che chiede “cambiamenti strutturali, concreti e rapidi per rimuovere la cause alla base di tragedie come queste” ha continuato Deborah Lucchetti[5] di Abiti Puliti[6], che rappresenta la Clean Clothes Campaign in Italia.
Per questo la Campagna[7] insieme ai sindacati e alle organizzazioni impegnate per i diritti dei lavoratori in Bangladesh e in tutto il mondo, chiede ora un intervento immediato da parte dei marchi internazionali per sottoscrivere un piano d’azione specifico che includa “un programma di ispezioni indipendenti e trasparenti, una rivalutazione obbligatoria degli edifici in cui si riforniscono i marchi internazionali, una ricognizione di tutte le leggi e le norme di sicurezza esistenti, un impegno a pagare prezzi adeguati e il coinvolgimento diretto dei sindacati in corsi di formazione per i lavoratori su salute e sicurezza”.
Per la CCC avviare una campagna di pressione internazionale sui grandi brand della moda è in questo momento più che mai importante anche perché potrebbe convincere il Governo bengalese ad effettuare un’indagine immediata sulle cause dell’incendio accertando l’esatta dinamica dei fatti e garantendo quanto prima in tutta la nazione che gli edifici attualmente in uso siano adatti allo scopo cui sono destinati e rispettino gli standard di sicurezza nazionali ed internazionali. Una analoga richiesta utile a ricostruire la catena delle responsabilità e la messa in sicurezza dei lavoratori è stata avanzata anche dalle Maquila Solidarity Network[8], Workers Rights Consortium[9] e International Labor Rights Forum[10] per il rogo della Ali Enterprises in Pakistan, visto che “Perseguire coloro la cui negligenza ha causato la morte di queste donne e uomini è la via più rapida per garantire che delle adeguate compensazioni vengano pagate ai familiari delle vittime e che i feriti ricevano del sostegno per sostenere le cure mediche di cui necessitano” ha spiegato la Lucchetti[11].
Nonostante dal giorno dell’incendio della Tazreen Fashions, i grandi marchi stranieri che realizzavano i loro indumenti nella fabbrica tessile si siano affannati per chiarire che avevano rescisso i contratti con l’azienda bengalese, proprio perché questa non rispettava gli standard di sicurezza internazionali, la Clean Clothes Campaign non ne è convinta. “Molte etichette e documenti trovati nella fabbrica riguardano Walmart, C&A, Edinburgh Woollen Mill, Piazza Italia, Kik, Teddy Smith, Ace, Dickies, Fashion Basics, Infinity Woman, Karl Rieker GMBH & Co e True Desire (Sears), ma finora solo C&A e Li & Fung, un intermediario con sede ad Hong Kong, hanno confermato di essere acquirenti della fabbrica al momento dell’incendio. Per questo – ha continuato la Lucchesi[12] – stiamo lavorando per avere risposte ufficiali da ciascuno degli altri brand in merito al loro rapporto con la Tazreen Fashions e i loro proprietari: il TUBA Group”.
Proprio in questi giorni il rapper e produttore americano, Sean Combs, meglio noto come Puff Daddy è stato chiamato in causa dagli attivisti dopo la scoperta che etichette del suo brand ENYCE sono state trovate tra i resti bruciati della fabbrica tessile Tazreen Fashions. “Siamo sicuri che Mr Combs è scioccato quanto noi per aver scoperto che la sua azienda è implicata in una simile tragedia – ha detto Liz Parker[13] analista della CCC – e per questo lo invitiamo ad usare la sua influenza per assicurare che le fabbriche di indumenti siano luoghi sicuri per chi vi lavora”.
Intanto migliaia di operai tessili a Dhaka sono scesi in strada nei giorni scorsi (c’erano anche molte delle operaie sopravvissute all’incendio) per protestare contro le condizioni di lavoro nelle oltre 500 fabbriche che producono abiti nel distretto tessile industriale della città . “Vogliono che i proprietari di Tazreen ricevano una punizione esemplare”, ha dichiarato il capo della polizia di Dacca, Habibur Rahman e “Vogliono vedere dei progressi in materia di sicurezza nelle loro fabbriche, dove sentono di andare a braccetto con la morte” ha spiegato il rappresentante sindacale locale Babul Akter.
La CCC nel frattempo chiede a tutti coloro che operano nel settore dell’abbigliamento dentro e fuori il Pakistan e il Bangladesh di passare ai fatti attraverso un’azione significativa e concreta per evitare che un’altra terribile perdita di vite si ripeta in futuro. “I marchi internazionali, i datori di lavoro e le autorità sono tutti corresponsabili per questa inutile sofferenza – ha concluso la Zeldenrust[14] – e non ci possono essere più scuse o ritardi che costringano i lavoratori a vivere nella miseria o a morire per produrre i nostri vestiti”. A fare la differenza, potrebbero essere proprio i grandi marchi stranieri. Sottoscrivere accordi e contratti solo con aziende che rispettano gli standard di sicurezza e garantiscono diritti di base ai lavoratori, sarebbe un primo ed importante passo. Il nostro, intanto, potrebbe essere rivolgerci al commercio equo[15] o a marchi con una chiaro codice etico.
Alessandro Graziadei[16]
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