Antidoti all’amnesia del passato coloniale
Quando negli anni Novanta cominciarono ad arrivare in Italia gli immigrati africani, riaffiorò un razzismo che affondava le radici nel periodo coloniale. La propaganda a favore dell’espansione imperialista ha distorto la rappresentazione del colonialismo italiano, descrivendolo come «diverso» dagli altri. Da qui è nata la leggenda degli italiani «brava gente» – come se il colonialismo italiano avesse un volto umano – che ha portato a un’autoassoluzione collettiva e ha impedito una seria autocritica nei confronti del passato. Della stessa leggenda ci si è serviti da una parte per negare fino alle soglie del nuovo millennio fatti storici quali l’uso dei gas tossici nel 1935, quando sugli etiopi furono riversati fusti di iprite, un’arma proibita dalle convenzioni internazionali, e dall’altra per costruire una copertura ideologica alla partecipazione dell’Italia alle operazioni di penetrazione economica, politica, militare dell’Africa, presentate come operazioni umanitarie di soccorso e di ricostruzione. Ciò che è mancato nel nostro Paese è un’autentica decolonizzazione della mente, e l’amnesia generale riguardo al passato coloniale ne è l’inevitabile conseguenza.
Cerca di arginare questo rimosso coloniale Somalitalia: Quattro Vie per Mogadiscio, due documentari, corredati dai rispettivi libretti, a cura di Simone Brioni (Kimerafilm 2012, pp. 37, euro 15). Nel primo dvd è possibile vedere La quarta via (2007), una performance orale di Kaha Mohamed Aden, la cui opera attinge al patrimonio orale somalo, come dimostrano Mettiti nei miei panni (2003), La valigia della zia (2005) e Specchio, specchio delle mie brame chi è più abile nel reame? (2006). In La quarta via l’autrice parla della sua città natale, Mogadiscio, suddividendola in quattro vie che corrispondono ad altrettanti periodi storici. È un ritratto di Mogadiscio in assenza, in cui Aden si lascia riprendere in alcuni luoghi di Pavia, la città in cui vive ora, quasi a sottolineare come la memoria sia più viva se alimentata dall’immaginazione. La «prima via» della capitale somala sa di cannella e cardamomo e corrisponde ai quartieri antichi affacciati sull’Oceano Indiano, dove spiccano i bianchi edifici arabi. Il passato di commerci e scambi culturali è il punto di partenza del percorso verso il presente; la posizione strategica di Mogadiscio come luogo di comunicazione tra il mare e l’entroterra è raccontata da Aden attraverso la storia della sua famiglia. La «seconda via» narra il periodo coloniale e l’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia, dal 1950 fino all’indipendenza del paese nel 1960. L’autrice condanna la decisione dell’Onu di affidare proprio all’Italia il mandato di condurre la Somalia verso la democrazia, come Angelo Del Boca ha denunciato la decisione del governo italiano di affidare ai funzionari coloniali di un tempo la gestione del paese. Aden sottolinea le responsabilità dell’Italia per la situazione in cui versa attualmente la Somalia, ma anche quelle dei somali che hanno collaborato con il colonialismo italiano. La «terza via» racconta le speranze dell’indipendenza e del periodo socialista, soffocate dalla dittatura di Barre. Il racconto di Aden copre un lasso di tempo che va dall’indipendenza del 1960 alla caduta del regime e arriva all’inizio della guerra civile nel 1991. Il sogno di un cambiamento legato alla rivoluzione socialista termina con l’inizio della dittatura, simboleggiata dalla fotografia di due ragazze, i cui vestiti raccontano il multiculturalismo somalo degli anni Settanta: una porta il sari indiano, gli zatteroni italiani e i capelli alla Angela Davies; l’altra ha i dreadlock e indossa un guntino che, lasciando le spalle coperte solo da un velo, cerca di mediare tra il Corano e le tendenze della moda. Sulla scena incombe l’ombra di un soldato. La «quarta via», infine, è quella dell’attuale guerra in-civile che sta lacerando il paese: nel suo tentativo di cancellare le tracce del passato rende necessaria la speranza di una «quinta via».
In un altro libro con dvd sempre curato da Simone Brioni e edito da Kimerafilm (pp. 41, euro 15), Aulò! Aulò! Aulò! – la parola significa «poesia orale» – la storia di migrazione di Ribka Sibhatu, scrittrice e saggista italiana di origine eritrea, si interseca con la storia della diaspora del popolo eritreo.
Nel 1993 Sibhatu pubblicò Aulò-Canto Poesia dell’Eritrea (1993), un libro in italiano e tigrino considerato un atto di resistenza nei confronti dell’appropriazione etnocentrica della lingua italiana. L’anno dopo su «Linea d’ombra» uscì il racconto autobiografico Andiamo a spasso?/Scirscir’n demna di Maria Abbebù Viarengo, dove inglese, oromo, piemontese, arabo, amarico e tigrino si fondono con l’italiano. Sono testi in cui per la prima volta si assiste a un complesso dialogo interculturale dal quale scaturisce un ibrido linguistico in cui l’italiano si mescola con la lingua del popolo colonizzato.
Le poesie di Sibhatu, introdotte da Graziella Parati, si possono leggere anche nel volume che accompagna il dvd, la cui colonna sonora è di Edoardo Chiaf e Gabriele Mitelli. Il video Aulò: Roma postcoloniale colloquia con La quarta via sia per il suo legame con la tradizione orale sia per la somiglianza dei temi discussi. Come Aden si era interrogata sulla sua appartenenza e aveva parlato di Mogadiscio grazie al distacco fornito dall’ambientazione pavese, così Sibhatu ripercorre la storia dell’Eritrea a Roma. La mancanza di linearità del racconto orale – un aspetto evidente non solo nelle performance ma anche nella produzione scritta delle autrici africane, caratterizzata da frequenti salti spaziali e temporali – ricalca movenze stilistiche tipiche della tradizione orale africana.
La ricca opera curata da Simone Brioni riunisce poesia scritta e racconto orale ma anche poesia orale e testimonianze scritte, e grazie a due documentaristi, Ermanno Guida e Graziano Chiscuzzu, amalgama immagini, fotografie, disegni e musica in una convincente e necessaria opera multimediale, un antidoto indispensabile alla perdita della memoria storica e uno strumento fondamentale per la conoscenza dei nostri connazionali di discendenza africana.
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