by Sergio Segio | 20 Dicembre 2012 7:43
ALGERI. In un cinema dall’aria fatiscente a Staoueli, a una trentina di chilometri da Algeri, una platea di anziani militanti del Fronte di liberazione nazionale (Fln) ascolta il Segretario generale Abdelaziz Belkhadem. «Dobbiamo ringiovanire i quadri del partito», incalza il leader, «convincere i giovani a partecipare alla costruzione del Paese, ridare loro una speranza, e più diritti». Basta, però, guardarsi intorno per accorgersi che nella sala i giovani latitano: solo una piccola percentuale ha partecipato alle recenti elezioni, la maggioranza non crede che le pouvoir possa cambiare. L’Fln è il partito simbolo della lotta per l’indipendenza, di cui l’Algeria celebra i 50 anni. Formatosi nel pieno della guerra anti-coloniale, è al potere, appunto, da mezzo secolo: dalla fine delle ostilità contro la Francia. È proprio uno dei suoi esponenti storici, il presidente Abdelaziz Bouteflika, ad accogliere il suo omologo francese Franà§ois Hollande sbarcato ieri nella capitale per «aprire una nuova era» nei rapporti con l’ex colonia. E proprio i giovani che disertano l’incontro al cinema con un potere in cui non si riconoscono, seguiranno la visita di Stato del capo dell’Eliseo per scoprire cosa intenda davvero Hollande quando vuole «mettere una pietra sopra il passato»: se cioè sia «il rifiuto delle autorità francesi di riconoscere, scusarsi o indennizzare, materialmente e moralmente, i crimini commessi dalla Francia coloniale in Algeria», come denuncia una decina di partiti algerini, o se sia invece la promessa di una serie di accordi commerciali che diano un po’ di fiato all’asfittica economia. Hollande ripete che «non sono venuto qui per pentirmi o chiedere scusa»; invita a «lavorare per l’avvenire » e progetta «una mobilitazione delle nostre due società ».
Ma i solenni discorsi del francese arrivano smorzati nel caffè vicino al cinema, dove s’incontra la gioventù cui i politici vorrebbero restituire un orizzonte. Samir beve un tè alla menta con tre amici. Solo uno di loro ha un lavoro, mi dicono, come guardiano notturno. Nemmeno con una laurea si trova un impiego che ti dia una paga sufficiente a metter su famiglia. «Siamo tutti harraga», sorride Samir: un harraga è chi brucia il passaporto e lascia tutto dietro di sé verso un solo obbiettivo, imbarcarsi per l’Europa per cercare di farsi una nuova vita. Questo è il suo sogno, dice Samir. E quello dei suoi due compagni. E dei suoi quattro fratelli.
L’età media dei matrimoni in Algeria è 32 anni (ad Algeri ancora più alta). Senza un lavoro e senza una casa come fai a sposarti? Per un musulmano 32 anni è molto tardi perché solo il matrimonio permette una vita sessuale normale. Posti dove i giovani si possano incontrare non ci sono. Perfino la mensa universitaria è separata tra maschi e femmine. L’islamizzazione era cresciuta esponenzialmente negli Anni Ottanta, dopo l’arabizzazione delle scuole e delle università decisa dal governo. Gli insegnanti di lingua e educazione francese, non potendo insegnare in arabo uscirono dalle scuole, lasciando il posto a maestri venuti in massa dall’Egitto e dalla Giordania, legati alla Fratellanza musulmana e più interessati all’ideologia che alle materie scolastiche.
La disoccupazione giovanile è ufficialmente al 20 per cento, in realtà molto di più, e il problema degli alloggi — conseguenza anche dell’esplosione demografica: in 50 anni la popolazione è passata da 10 a più di 30 milioni — è «una minaccia per la stabilità del Paese», come dice il premier Abdelmalek Sellal. L’Algeria ricava più di 50 miliardi di dollari l’anno dalle esportazioni di gas e petrolio, ma una parte di questa rendita si perde nell’apparato corrotto dello Stato, un’altra va ai militari, mentre una burocrazia onnipotente e inefficiente impedisce che il resto venga utilizzato per modernizzare il Paese.
Dopo le prime manifestazioni di protesta in Tunisia e al Cairo anche ad Algeri molti giovani sono scesi in piazza. Ancora scoppia ogni tanto la hogra, la rabbia che nasce dall’impotenza, dal dover sottostare agli abusi dello Stato. Basta che perda la squadra del cuore perché volino sassi e si dia fuoco alle automobili. «La primavera araba noi l’abbiamo già avuta», ironizzano molti algerini. Ricordano che quando nel 1992 l’Algeria cercò di liberarsi del partito unico precipitò nella guerra civile, con atrocità inimmaginabili da tutte le parti. Morirono più di 200mila persone, le campagne furono abbandonate in massa perché vivere lì era ancora più pericoloso che in città . Per 10 anni nessuno è più uscito di casa la sera. Oggi gli algerini dubitano che la partecipazione della gente alla vita politica sia possibile senza che si ripetano simili episodi di violenza.
A festeggiare l’indipendenza sono soprattutto i vecchi militanti della guerra. Restano in pochi a difendere “il potere”: «Dopo 132 anni di occupazione avevamo ereditato un Paese in rovina», dice Kassa Aissi. «Non c’erano case. Gli algerini vivevano in baracche, solo un milione di francesi aveva ville e abitazioni confortevoli. Il 99 per cento della popolazione era analfabeta. Tra occupazione e guerra le élite erano state decimate. Oggi abbiamo centinaia di università , lo studio è gratuito, il trasporto per gli studenti anche, e così l’assistenza sanitaria. Acqua elettricità farina olio zucchero hanno prezzi sovvenzionati. Eppure perché tanti giovani rischiano la morte su un barcone pur di andarsene in Europa? ». A 50 anni dall’indipendenza, l’Algeria è ancora traumatizzata e divisa: tra vecchi e giovani, poveri e ricchi, città e campagna, Algeri e il resto del Paese.
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