Albert O. Hirschman, una vita spesa ad attraversare confini

by Sergio Segio | 15 Dicembre 2012 9:21

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«Ho sempre disprezzato le diagnosi troppo unilaterali e uniformi, ho sempre preferito immaginare l’inatteso. Ho sempre aborrito i principi generali e le prescrizioni astratte. Penso sia necessario avere una “lanterna empirica” o “visitare il paziente” prima di poter dire di aver capito cosa c’è che non va. È cruciale capire la peculiarità , la specificità  e anche gli aspetti inusuali di ciascun caso. Io so bene che il mondo sociale è variabilissimo, in continuo cambiamento, che non vi sono leggi permanenti. Eventi inattesi accadono in continuazione, nuove relazioni di causalità  prendono corpo.. col tempo persino le nuove idee contraddicono quelle vecchie. L’auto-sovversione è sempre stata una mia caratteristica… L’idea di trasgredire, di oltrepassare un limite è per me fondamentale… non sopporto di essere confinato in uno spazio, in un’area di pensiero, mi rende infelice. Quando vedo che un’idea può essere sperimentata in un altro campo, allora mi appassiono all’idea di avventurarmi… Sono sempre stato contro il metodo di certi scienziati sociali… che studiano cosa è successo in un certo numero di paesi, che so, cinquanta, e da lì partono per tirare conclusioni su cosa è probabile che accadrà  nel futuro. Nel trattare i molteplici e complessi problemi dello sviluppo abbiamo imparato che dobbiamo evitare generalizzazioni di ogni tipo ed essere sordi, come Ulisse, al canto seducente del paradigma unico».
In molti hanno sottolineato come la nozione di confini sia centrale in tutto il lavoro di Hirschman, con al centro il concetto di violazione (trespassing) come topos focale del suo itinerario «anticonformista». Questo violare non fu una mera posa estetica, che nel suo caso anzi esso ebbe una fortissima densità  esistenziale: fu a causa del nazismo che dovette attraversare confini, ma egli, a sua volta, si diede da fare per salvare le vite di molti aiutandoli ad attraversare confini. E questo continuò a farlo anche quando aiutò amici e colleghi a fuggire dalle dittature latino-americane (…). 
Eppure, nonostante sia stato definito un «anticonformista» – perché non voleva davvero conformarsi – Hirschman non è mai stato neppure un eterodosso dichiarato, perché schierarsi era contro la sua natura. Seppe essere estremamente critico dell’ortodossia ma riuscì ad essere sempre rispettato, riconosciuto dall’attribuzione di un premio del Social Science Research Council a lui intitolato, forse perché sempre ragionevole, umile, dedicato a dare un senso all’imponderabilità  dell’azione umana.
Se è vero che ogni azione umana è tesa al raggiungimento di una qualche soddisfazione, il pensiero economico ortodosso limita tale soddisfazione all’utilità  individuale. Hischman era convinto che le passioni e gli interessi contano più delle preferenze utilitaristiche. Se contestualizziamo i comportamenti umani all’interno di un sistema di valori, allora vedremo quanto la relazione fra comportamenti individuali e dinamiche collettive possa portare a risultati diversi e lontani da quelli previsti dall’approccio della massimizzazione dell’utilità  individuale (…). 
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