Al ballo dei nobili sovietici

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Si trattava di lavorare su uno dei più sorprendenti e affascinanti ossimori: era arrivato a Mosca con la convinzione di trovare al potere una classe operaia tutta ideali rivoluzionari e stile puritano e aveva incontrato invece una nobiltà  marxista scimmiottante il mondo occidentale, affogata nel vizio e nella corruzione, ad appena pochi anni dalla morte di Lenin. Malaparte intendeva dunque essere il Proust della decadente società  comunista, dei suoi vizi, dei suoi scandali, dei suoi intrighi, come egli stesso dichiara nelle pagine introduttive e come appare anche dai titoli progettati per il libro (Du cà´té de chez Staline, Les princesses de Moscou) prima che approdassero al definitivo Il ballo al Kremlino.
Il romanzo, che si immagina avrebbe potuto costituire insieme con La pelle e Kaputt il terzo pannello di un trittico sulla decadenza dell’Europa, rimase incompiuto e fu pubblicato postumo, nel 1971, nell’ultimo volume delle Opere di Malaparte edite da Vallecchi; né fu più ristampato.
Attraverso un paziente lavoro di riassetto filologico, accompagnato da un prezioso commento che illustra la genesi e la storia complicata del testo, come pure i suoi rapporti con gli altri scritti di Malaparte di argomento sovietico (in particolare Intelligenza di Lenin, Tecnica del colpo di Stato, Le bonhomme Lénine, Il Volga nasce in Europa), l’opera riappare adesso presso Adelphi per la cura di Raffaella Rodondi (Il ballo al Kremlino. Materiale per un romanzo, pagine 418, 22), quasi in coincidenza con l’uscita in traduzione italiana della vasta, ricca e precisa biografia di Maurizio Serra, originariamente scritta e pubblicata in francese (Malaparte. Vite e leggende, traduzione di Alberto Folin, Marsilio, pagine 592, 25).
L’edizione Adelphi allinea, insieme con gli abbozzi e con altri frammenti, sei capitoli del libro (più un interessantissimo scritto sull’aura funebre della riproduzione fotografica della natura e sulla vergogna della morte nel mondo sovietico come, in generale, nel mondo moderno, dove «un uomo è un pezzo di ricambio»).
In questa costellazione il lettore incontra inevitabilmente varianti, anacronismi e ripetizioni, tutti perfettamente spiegati dalla curatrice, che peraltro non offuscano l’arte dello scrittore. Essa, più che in certe paradossali elucubrazioni di un romanzo-cronaca che è anche un romanzo-saggio, si manifesta in due generi, poco frequenti nella tradizione letteraria italiana: il ritratto e l’aneddoto.
Indimenticabile è la figura del roseo e biondo Florinski, antico funzionario del ministero degli Esteri zarista divenuto Capo del Protocollo del Commissariato degli Affari esteri della Repubblica dei Soviet, che appare in mezzo al traffico di Mosca su una tarlata carrozza nera tutto incipriato e bistrato, vestito di tela di lino bianca e di calze di seta bianca: un personaggio proustiano, per il quale «il marxismo era una sorta di complemento della sua natura di pervertito».
Più sobrio, ma pur sempre all’opposto dell’ideale d’uomo comunista, è il bellissimo ed enigmatico Karakan, partecipe e anzi protagonista della rivoluzione cinese, che parla con perfetto accento oxfordiano e gioca a tennis soltanto con palle fatte appositamente venire da Londra. Egli è l’amante dell’idolatrata Semà«nova, prima ballerina del Gran Teatro dell’Opera di Mosca, la cui grazia è scrutata ogni sera dall’occhio interessato dello stesso Stalin ed è oggetto delle chiacchiere di tutte le beauties della capitale. Ma vi sono anche figure già  lambite dall’odore della morte, come la grassa e sfatta Madame Kamenev, che «era già  in agonia dal giorno in cui suo marito e suo fratello Leon Trozki erano stati arrestati dalle “giacche di cuoio” della Ghepeu».
Alla vita della pègre dorée, la «mala dorata», contrasta la sorte dell’antica nobiltà  esautorata e della borghesia ridotta alla fame, costrette a vendere «le ultime cianfrusaglie del loro antico splendore»: sulla via dell’Arbat un vecchio signore, che è il principe Lwow, cammina curvo portando sulla testa una poltrona dorata; sullo Smolenski Boulevard una dama della Croce rossa in uniforme, ancora giovane e bella, è ridotta ad offrire a Malaparte, «orrenda Veronica», un paio di vecchie mutandine di pizzo.
Ma l’elemento più impressionante del Ballo al Kremlino è dato da quella fosforescenza della decomposizione che si condensa nell’immagine, simbolica e ricorrente, della mummia di Lenin: «Specialisti tedeschi venivano ogni tanto da Berlino per svuotare, raschiare, disinfettare il guscio di quel prezioso crostaceo, quella sacra mummia cui un sudore verdastro, simile a una muffa, velava il bianco viso di porcellana illuminato di lentiggini rosse».


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