Addio Ravi Shankar
Era il primo agosto del 1971, sul palco del Madison Square Garden a New York, al concerto organizzato in favore delle popolazioni del Bangladesh. Ravi Shankar accordava il sitar e alla fine la folla, le quarantamila persone che gremivano il teatro, applaudirono con passione, credendo che quella fosse già la performance. «Se vi è piaciuta l’accordatura – disse Shankar al pubblico – allora gradirete ancora di più il pezzo che faremo».
Era anche spiritoso il maestro di musica indiana, gigante della musica del Novecento, morto ieri a 92 anni all’ospedale di San Diego, California, accudito fino all’ultimo dalla moglie e dalla figlia Anoushka con cui lo scorso 4 novembre, si era esibito in concerto al Terrace Theater di Long Beach. «È stata una grande perdita musicalmente, spiritualmente e fisicamente: pace e amore», è stato il commento di Ringo Starr, l’unico Beatle che ieri ha ricordato il musicista, essendo Paul impegnato sul palco per il concerto benefico dedicato alle vittime dell’uragano Sandy con i Rolling Stones, i Nirvana, Roger Waters, Bruce Springsteen, Eric Clapton.
Ravi Shankar, grazie ai Beatles, aveva spalancato a un’intera famelica generazione di giovani le porte dell’oriente. Ai raduni rock c’era abituato. In quel meraviglioso momento, quando la parola rock significava non un genere ma una nuova visione delle diversità , la sua musica era vicina a quella degli Who e di Jimi Hendrix. Era stato già a Monterey, nell’estate dell’amore del 1967, e poi a Woodstock, davanti a sterminate platee di ragazzi disposti a vivere l’estensione dei suoi raga (le strutture della musica indiana) come stimoli per viaggi interiori.
Ravi Shankar era nato nel 1920 a Varanasi, la città sacra del nord dell’India che si stende sulle rive del Gange, e dopo un lungo apprendistato cominciò a suonare il sitar, folgorato dall’ascolto del musicista di corte Allaudin Khan che poi diventò il suo maestro, ma sembrava predestinato a diventare il ponte tra la cultura occidentale e quella indiana, perché già da bambino aveva viaggiato in Europa al seguito del gruppo di danza gestito da suo fratello, e già negli anni Cinquanta aveva collaborato col violinista Yehudi Menuhin, (che disse di lui: «ha un genio e un’umanità paragonabili a quelle di Mozart»). Lascia due figlie, Anoushka che è stata sempre al suo fianco e che continua la tradizione del padre, e la più famosa Norah Jones, con la quale però non ha praticamente avuto alcun tipo di relazione. Shankar sembrava nato per divulgare, spiegare, conquistare, ma il vero big bang partì quando per la prima volta si sentì il suono del sitar in un pezzo pop. Avvenne nel 1965, quando George Harrison, affascinato dai suoni dell’India, prima ancora di conoscere personalmente Ravi Shankar, decise di inserire un sitar in Norwegian wood. L’anno dopo Harrison conobbe il maestro e andò da lui a Srinagar per il primo di innumerevoli incontri. «Solo i nostri corpi sono vecchi – disse una volta parlando della sua relazione con Shankar – ma dentro siamo come bambini di sei anni. Per lo più siamo soprattutto amici, anche se a volte mi sembra di essere suo padre, nel senso che la mia abitudine passata a convivere col business mi spinge a essere una specie di guardiano, a proteggerlo da un mondo “vizioso”, ma io credo che la gente possa trarre beneficio da questa musica per avere una vita più armoniosa e pacifica». Harrison trovò in Shankar il maestro che non aveva mai avuto negli anni della sua formazione e da parte sua Shankar diventò celebre, quasi divinizzato, grazie al suo enorme carisma, al suo spirito cosmopolita, a un fascino indiscutibile, ma anche ovviamente grazie alla sua ineguagliabile abilità strumentale. È stato certamente il più grande interprete della musica classica indiana, compositore, performer, capace di portare gli ascoltatori in una immersione profonda nello spirito della musica, attraverso improvvisazioni che tra l’altro hanno influenzato jazzisti e musicisti contemporanei, e spinto milioni di persone a guardare verso oriente in cerca di una luce che in occidente sembrava offuscata.
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