1909-2012. La nostra “beaufitul mind”

by Sergio Segio | 31 Dicembre 2012 9:04

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LA FINE è importante in tutte le cose. A 103 anni Rita Levi-Montalcini ha completato la sua nel modo che posso immaginare avrebbe voluto: addormentandosi. L’aveva preparata da tempo dentro di sé, con la leggerezza che le persone speciali sanno usare nell’affrontare le cose gravi. Non si era stancata della vita, tutt’altro, aveva deciso di dimenticarsi di vivere per sfiorare la presunzione filosofica dell’immortalità . La vita per lei era qualcosa in cui si sta indefinitivamente anche quando finisce. È la ragione per la quale a più di dodici anni dalla scomparsa continuava a parlare e a scrivere alla sorella gemella Paola, la sua «Pa adorata». Di lei portava sempre sul polso destro un bracciale con incastonato nel centro il giglio di Firenze. «Il cuore di quella vagabonda continua a battere dentro di me», diceva.
Consapevole che si vive per sempre, Rita Levi-Montalcini ha cercato di occupare un piccolo posto nel mondo.
È stata una donna curiosa e schiva, tanto essenziale da apparire dura, affilata nell’animo come nelle risposte, quasi sempre caustiche, distanti. Una delle ultime la riservò a Storace e alle aggressioni antisemite dei fascisti in Parlamento: «Sono come l’acqua sulla pelle di un’anatra, scivolano via». Per vivere senza dare fastidio agli altri, si era ritagliata uno spazio appena necessario, lo aveva ridotto all’isola di Sciascia. A cominciare da se stessa. Pesava meno di quaranta chili, limitava i suoi spostamenti dalla casa romana che sta dietro Villa Torlonia ai laboratori dell’European Brain Research Institute di via Fosso Fiorano, il suo Ebri. Mangiava pochissimo e dormiva ancora meno. Ogni sera andava a letto alle undici. Ogni mattina si alzava alle cinque. Diceva: «Non mi interessano né il sonno né il cibo». Consumava un pasto vero solo una volta al giorno, a pranzo. A cena si concedeva un brodo e un’arancia. Era quasi sorda, ci vedeva poco, aveva la pelle scavata dalle rughe come quella di un ramo antico, l’unica ferita del tempo alla vanità  che l’irritava, ma la forza e la resistenza di un bonsai ultracentenario. Il giorno in cui entrò nei suoi cent’anni, seduta come una bambina sul bordo di un divano, la testa bianca scossa da un lieve tremore sopra un abito di Capucci blu elettrico mi disse: «Non mi vergogno delle mie doppie protesi acustiche, dei miei occhi costretti a essere aiutati da un ingranditore. Voglio andare avanti. Non sono stanca di vivere e non cerco la morte. Arriverà . Forse tra un mese, forse tra due anni.
Le mie colpe sono di scarsa entità  e credo di avere poco da farmi perdonare». Dettò anche quello che poteva essere il suo epitaffio: «Potevo essere una donna migliore, ma ho avuto lo stesso una bella vita».
Le piaceva paragonarsi a Robinson Crusoe. «La prima volta che mi sono sentita come il personaggio di Defoe è stato negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure quel male produsse un bene. Senza Mussolini e Hitler oggi sarei soltanto una vecchia signora dalla salute fortunata. Grazie a quei due, invece, sono arrivata a Stoccolma. Non mi sono mai sentita una perseguitata. Ho vissuto il mio essere ebrea in modo laico, senza orgoglio e senza umiltà . Non vado in sinagoga né in chiesa. Non porto come una medaglia il dato storico di appartenere a un genere umano che ha sofferto molto, né ho mai cercato di trarre vantaggi o risarcimenti morali. Essere ebrei può non essere piacevole, non è comodo, ma ha creato in noi un impulso intellettuale supplementare. Come si può affermare che Albert Einstein era di razza inferiore? Dovremmo abolire anche nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone ». Nel maggio del 1969 Rita è a St. Louis, le capita tra le mani Il lamento di Portnoy.
Una rivelazione dolorosa. Scrive alla sorella: «Mia Pa adorata, sto leggendo la più feroce accusa che sia mai stata scritta contro le Jewish mothers di New York. È il libro più famoso dell’anno, scritto da un giovane scrittore ebreo di New York. È difficile immaginare un libro tanto crudele nella denunzia dei difetti della razza e specialmente delle madri ebree. Tuttavia è così ben scritto e colpisce talmente nel segno che non si può condannarlo. Leggendolo pensavo alla nostra fortuna di avere avuto una mamma come la nostra.
Benedetta la sua dolcezza e il suo riserbo, così differente dall’aggressività  delle donne ebree descritte da Philip Roth».
Vissuta nel ricordo della mamma Adele (e forse segnata da quello del padre, l’ingegnere torinese Adamo Levi, un uomo antico e autoritario), Rita non è mai stata moglie e madre. Spiegava il perché cominciando da Dio. «Invidio chi ha la fede. Io non credo. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che vuole tenere il nostro destino nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. È una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l’ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prendete una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com’erano duecento anni or sono. Noi no. L’uomo è darwiniano al cento per cento. Ebbene, io a tre anni, a tre anni, lo giuro, ho deciso che non mi sarei mai sposata e che non avrei avuto
bambini. Sono rimasta condizionata dal rapporto vittoriano che subordinava mia madre a mio padre. A quei tempi nascere donna significava avere impresso sulla pelle un marchio di inferiorità . Eppoi ho visto troppe vite matrimoniali sfortunate. Ne vedo tante anche oggi. Vite tristi, vuote, false». Negli Stati Uniti, durante un ricevimento venne avvicinata da una signora che le domandò se anche suo marito era membro della National Academy. Lei le rispose: «I am my own husband », sono io stessa mio marito. Sola, eppure circondata per l’intera esistenza da una folla di uomini. Amici, maestri. A partire da Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginzburg, il professore che le preconizzò il Nobel per la medicina. «Ho rinunciato a costruire una famiglia, non all’amore », raccontava Rita. «Ho avuto degli affetti, mi sono innamorata, sono stata felice. Ma forse il mio unico figlio è stato l’Nfg. Ho avuto e ho amici importantissimi, gli amici di una vita: Renato Dulbecco, Giuseppe Attardi, il mio maestro Viktor Hamburger alla Washington University di St. Louis, Norberto Bobbio, la poetessa Maria Luisa Spaziani, Pietro Calissano, Piero Ientile, Pina Tripodi».
Tutto è stato enorme attorno a lei. Durante la guerra, a Torino trasformò in laboratorio la camera da letto, un piccolo locale di due metri per tre in corso Re Umberto. Quella stanza diventò un centro di ricerca frequentato anche dai compagni di scuola che professavano il fascismo e la domenica sfilavano con la camicia nera. Qualcuno cantava stupide canzoncine di regime. «Se ci manca un po’ di terra prenderemo l’Inghilterra, se ci mancherà  il sapone prenderemo anche il Giappone…». «Ridevamo di tutto ciò.
Con l’avvento delle leggi razziali fui costretta a trasferirmi a Firenze. Scelsi un finto cognome, il primo che mi venne in mente: Lupani. Mi specializzai nella stampa di documenti falsi per gli ebrei, avevo rapporti con il Partito d’Azione».
In solitudine arrivò al Nobel per la ricerca sull’Nfg, la sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose. Uno studio durato oltre mezzo secolo. «Sono giunta alla scoperta perché ero l’unica a lavorare in quello specifico campo della neurologia. Ero sola in mezzo a una giungla, non conoscevo nulla o quasi nulla. Sapere troppo, spesso, ostacola il progresso». Nel 1986 abitava già  a Roma. La telefonata dell’Accademia arrivò che era notte. Stava sfogliando un giallo di Agatha Christie. «La cerimonia del Nobel a Stoccolma non fu particolarmente eccitante, piuttosto una specie di grande festival ». Il primo agosto del 2001 la chiamò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Le disse semplicemente: «Sono Ciampi e l’abbraccio. La nomino senatrice a vita per meriti scientifici
e sociali». Lei questa volta si commosse, riuscì soltanto a rispondere con un grazie presidente. Ai ragazzi diceva, antesignana di Steve Jobs: «La mia intelligenza è mediocre e il mio impegno è poco più che mediocre, mi hanno salvata l’istinto e il cuore. Seguite sempre il vostro cuore». Amava Bertrand Russell, soprattutto queste parole nelle quali si riconosceva: «Tre passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la ricerca della conoscenza, la sete d’amore e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità ». Da giovane era ghiotta di pollo con la panna e le piaceva cuocersi per ore sotto il sole. La sua casa traboccava di fiori. Rose bianche e gialle, azalee, iris, orchidee, margherite. Si inebriava di profumi e colori. Sulla giacca portava sempre una spilla. Ha attraversato una lunghissima vita trovandoci parecchio dentro, una fortuna che non capita a molti e della quale si può essere certi soltanto quando giunge il nostro ultimo giorno.

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