by Sergio Segio | 1 Novembre 2012 7:44
Arrivano gli effetti politici dell’antipolitica – che estranea alla politica non è mai stata –. I siciliani secedono, escono dal sistema politico. Come al tempo della caduta del Muro le barriere furono infrante e i confini violati da una trasgressione liberatoria, così oggi cadono le fragili mura e i tarlati edifici della Seconda repubblica, per il combinato disposto di due modalità di protesta, distinte ma convergenti: quella passiva dell’astensionismo e quella attiva del voto a favore di un movimento populista rabbiosamente antisistema. Se i siciliani, in maggioranza, non vanno a votare, se un sesto di quelli che votano scelgono una forza che si chiama fuori dalle logiche della politica ordinaria, e se gli altri si distribuiscono in partiti medio-piccoli che non possono dar vita a maggioranza stabili e coese, allora tutto ciò fa barcollare le istituzioni, le terremota, le delegittima.
Nulla è stato fatto, a oggi, dalle elezioni amministrative di primavera – dalle quali questo esito si poteva evincere con facilità – per porre rimedio alla cattiva politica che è la madre della protesta. Ora siamo alla crisi non nel sistema ma del sistema: sarà ben difficile che la politica sappia produrre nuove soluzioni; in Sicilia – e anche in Italia, se l’isola è ancora da considerarsi, come lo fu in passato, il laboratorio in cui si esperimenta ciò che poi accadrà nella penisola – urge il passaggio alla Terza repubblica, perché la Seconda non ce la fa.
Si manifesta, è vero, un trend, l’unico possibile, di governabilità ; a fronte dell’astensione, del grillismo e dello spappolamento della destra, si può far conto esclusivamente su un’alleanza, per difficile che sia, fra Pd, Udc e Sel (quest’ultima, da sola, perde, fa perdere e rende instabile il sistema). Tranne, naturalmente, che non si formi e non sia vitale un Nuovo Centro – ma il Pdl di Alfano non si scioglierà tanto facilmente –. A fronte di questo sentiero politico stretto agli italiani, oggi, vengono proposte molte offerte antipolitiche, in concorrenza fra di loro: Grillo, Di Pietro, il Berlusconi ultima maniera – che con il suo sfacciato populismo tenta appunto di recuperare la protesta –, hanno il medesimo target: recuperare l’astensionismo, a ogni costo.
E qui sta il nodo del voto (o del non voto) di protesta. Alzare la voce, o non alzarsi dalla poltrona di casa, contro i partiti, contro la Casta – le cui prestazioni sono troppo insoddisfacenti, la cui corruzione è troppo disfunzionale – è solo un primo passo, che rischia di essere un passo indietro (o un affondare sul posto, nelle sabbie mobili), se non si fa il secondo. Che dovrebbe essere prendere coscienza del fatto che l’antipolitica è una forma di populismo dal basso che protesta contro il populismo dall’alto, che lo rifiuta ma non lo modifica qualitativamente, che lo assume, benché in negativo e inconsapevolmente, come una sorta di orizzonte o di destino – non a caso, dall’alto c’è chi lavora (Berlusconi, con la sua ultima novità : Forza Italia alleata con la Lega) per riprendersi quel consenso che dapprima cercava attraverso l’amore comunitario, e che ora invece insegue facendosi interprete della rabbia popolare –.
Pendolo che non fa muovere nessun orologio, ovvero che segna sempre la stessa ora, la protesta antipolitica è solo il rifiuto di prendere consapevolezza che le questioni politiche non si risolvono solo cambiando il ceto politico, ma mettendo in campo nuove idee e nuovi orizzonti, e nuovi assetti degli interessi, plurimi, che coesistono in una società complessa. Come il nesso polemico vecchio/nuovo ha senso solo se esprime un conflitto non solo anagrafico, così il rapporto amico/nemico che il populismo vuole istituire far Noi e Loro, fra popolo ed élites, ha senso solo se dà vita al disegno di un nuovo assetto della repubblica.
Se ciò non avviene, la protesta è sì il segno di un mondo che muore, di un ordine che si sbriciola, ma resta subalterna alla crisi di quel mondo, la abita facendo parte del problema e non della soluzione. D’accordo, nessuno rimpiangerà , dal punto di vista politico, gli ultimi vent’anni (nemmeno gli anni Ottanta, in verità ): ma il voto di protesta è, rispetto a quel ventennio, un congedo dal quale ci si deve infine congedare. Il voto di protesta ha senso, insomma, solo se è anche una proposta. Altrimenti è un’agitazione inerte, è molto rumore per nulla. O per resuscitare, come avverrà in Sicilia, politiche di Palazzo, maggioranze instabili, a geometria variabile; certo, non una sconvolgente novità . In altri termini, è controproducente e paradossale: non solo fa sì che la maggioranza che protesta sia governata dalla minoranza che vota, ma è il modo migliore per lasciare tutto com’è, o per preparare un futuro diverso ma peggiore.
Nella terra del Gattopardo, che come si sa non è la Sicilia ma l’Italia intera, si profila un Gattopardismo inconsapevole e pigro: se non capisce che il futuro non è l’antipolitica speculare alla cattiva politica che l’ha generata, e che non è neppure semplicemente una nuova politica ma che deve essere soprattutto una buona politica, il gatto con l’occhio di lince rischia di essere un gattino cieco, la bestia astutissima di restare intrappolata nella propria ingenua furbizia. Solo se comprendiamo che la protesta va rivolta soprattutto contro la nostra pretesa di non occuparci di politica e di esserne soltanto i fruitori passivi, riusciremo a superare la secessione interna – la voragine che in Sicilia si è aperta, e in cui rischia di precipitare tutta l’Italia – fra noi e la nostra esistenza politica, e a evitare il rischio di distruggere, con la nostra esasperazione, proprio la nostra speranza.
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