“Vogliamo diritti anche qui” uno sciopero ferma Amnesty
LONDRA — Qualcuno ha soffiato sulla candela avvolta nel filo spinato e ha spento la luce. Stavolta però non è qualche regime totalitario a offuscare l’azione di Amnesty International: sono gli stessi attivisti della più importante organizzazione mondiale in difesa dei diritti umani ad averne bloccato l’azione, scendendo in sciopero per un giorno. È la seconda volta che accade in due mesi, il segnale di un disagio interno a un movimento che ha fatto molto per la libertà e la democrazia, ma ora attraversa una fase nuova e complicata.
A prima vista si tratta di una normale rivendicazione sindacale: la direzione di Amnesty ha deciso recentemente di trasferire una parte dei suoi 500 posti di lavoro dal quartier generale di Londra a una decina di sedi distaccate, nell’ambito di un piano per essere più “sul campo”, più vicini ai punti caldi dove avvengono le violazioni dei diritti umani. Niente di strano, se non che il cambiamento comporterebbe qualche taglio del personale. Ma evidentemente c’è sotto un dissenso più profondo, se la settimana scorsa Susan Lee, direttrice dei programmi di Amnesty negli Stati Uniti, ha dato le dimissioni dicendosi sconcertata dall’incapacità dei senior manager del gruppo di trattare i dipendenti «con equità e rispetto». Il giorno seguente è stato deciso lo sciopero, con l’accusa ai dirigenti di mancanza di «onestà , competenza e trasparenza». Amnesty, afferma un comunicato del sindacato interno, fronteggia una crisi che «minaccia la sua sopravvivenza ».
Le critiche sono sostanzialmente di due tipi. Da un lato c’è chi dice che l’organizzazione si è burocratizzata e verticizzata. Negli ultimi cinque anni, il personale è aumentato del 15 per cento. Nel 2011, Amnesty ha pagato a 36 dipendenti salari di oltre 70 mila euro ciascuno e sette hanno ricevuto un salario di oltre 120 mila euro a testa: nel 2007 soltanto sette persone prendevano 70 mila euro e soltanto tre superavano i 120 mila euro. Troppi generali, troppo ben pagati? L’altra rimostranza riguarda gli obiettivi: nata per lottare contro la pena di morte e per la libertà di coscienza, oggi Amnesty si occupa di tante cose, dalla povertà di massa agli abusi delle grandi corporation, e qualcuno l’accusa di voler fare troppe cose, non abbastanza bene. Il successo di un’organizzazione nata nel 1961 dall’idea di un avvocato inglese, cresciuta fino ad avere più di 2 milioni di membri nel mondo e capace di rendere ovunque riconoscibile il suo simbolo, la candela nel filo spinato, la luce nelle tenebre, è innegabile. In gioco c’è la transizione a un mondo non più diviso dalla guerra fredda e dipendente da nuovi equilibri: non ultimo la crisi economica. Che anche Amnesty ha conosciuto sulla sua pelle, vedendo scendere le donazioni dai 3 milioni di euro del 2007 a1 milione lo scorso anno.
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