Vittima dei bulli online La Rete processa se stessa

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BRUXELLES — In due giorni, aveva già  raccolto 10871 messaggi sulla pagina Facebook che gli hanno dedicato: «Riposa in pace, Tim». E ancora oggi, sul Web, lui vive nei ricordi e forse nei rimorsi di molti: «Tutti possiamo scegliere se essere buoni o cattivi — scrivono — e i bulli sono perdenti…», «Ditelo ai vostri figli, nessuno deve più morire di “bullying”, delle persecuzioni altrui». Ma la storia della sua morte suicida a vent’anni, un paio di settimane fa, comincia a svelarsi solo ora.
Di sera, Tim lavorava alla gelateria «Happy Days», per pagarsi i corsi di storia. Era un posto alla moda, si guadagnava benino. I clienti mandavano spesso le loro opinioni a un sito Internet di recensioni su ristoranti (domanda: «Com’è stata la tua cena stasera?»). E un giorno, le recensioni su «Happy Days» parlarono anche di qualcos’altro: «Lì ci lavora un invertito», «Io lavoro qui, sono un perdente e sono un omosessuale», e sotto nome e cognome del «perdente», firma falsa. Anche i padroni del locale videro quelle parole. E molte altre parole simili aveva già  ricevuto lui, sulla sua pagina Web, da anni. Così alla fine Tim Ribberink, vent’anni, studente, nato e cresciuto a Tilligte, villaggio olandese di 700 abitanti, si è ucciso. Vittima di «cyberbullying» su Internet, hanno scritto. «Per tutta la mia vita sono stato schernito, tormentato, preso di mira…», ha scritto lui nella sua ultima lettera ai genitori trasformata in un necrologio sul giornale. E poiché quella vita è in qualche modo finita sul Web, è sul Web che ora si inseguono le domande. Come se in tanti non riuscissero più a darsi pace.
«Non era mai riuscito a liberarsi, le sue mani tremavano sempre — sussurra un ragazzo su YouTube, accompagnandosi con la chitarra — è vissuto in questo mondo, ignorato dai cuori di pietra…». «Ciò che nessuno dice è che Tim era un omosessuale — grida invece uno dei primi “post” —. E questa è stata molto probabilmente la base di tutte le persecuzioni». Ma un altro, quasi subito: «Io ho frequentato la sua stessa scuola, sono un gay dichiarato e nessuno mi ha mai perseguitato…». Un altro ancora si augura che «i persecutori di Tim non dormano più una sola notte per il resto delle loro tristi vite».
Una ragazza dall’Australia: «Ma perché non ha pensato di chiudere la sua pagina Facebook?». E Lilli Cox: «Ma perché non possiamo rispettarci tutti, l’uno con l’altro?». «Il suicidio non è un atto codardo — afferma un altro — codardia è trattare qualcuno così male da spingerlo a uccidersi».
Invece Mark Kremer scrive il suo «post» poco tempo dopo essere diventato padre: «Se soltanto quei bulli avessero pensato per un istante a ciò che stavano facendo, oggi Tim sarebbe stato con noi. E può darsi che in una decina d’anni sarebbe stato un papà  come lo sono io ora. Per favore, pensate tutti per un attimo a come le vostre azioni nella vita quotidiana possono toccare gli altri». A volte c’è solo un grido di dolore, come quello di Olivia Mc Lean: «Oh no..». O quello di Katie Marie: «Abbiamo avuto tanti amici suicidi, e questo mi riporta tante memorie dolorose: ma tu almeno Tim, alla fine, riposa in pace». Michael Anderson lancia invece una sorta di sfida: «Possiamo fare qualcosa, parlandone. Le parole hanno un potere. Il potere dei bulli è nascosto nell’oscurità . Se lo rendiamo visibile, e aiutiamo le sue vittime, e coinvolgiamo altre persone, allora spezziamo le ombre delle forze nascoste. Credo che il bullismo non sia una coincidenza. Le vittime vengono scelte dagli spiriti del male…».


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