Un’altra impresa contro la crescita

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Ad esempio, l’articolo 35 del cosiddetto Decreto crescita, entrato in vigore in agosto, si preoccupa di dare attuazione a uno dei caposaldi della strategia energetica del governo e cioè la ripresa delle attività  estrattive di idrocarburi. Le nuove trivellazioni metteranno a rischio gran parte delle acque territoriali italiane, soprattutto nell’Adriatico e anche all’interno delle fasce d’interdizione introdotte nel giugno 2010 a tutela delle aree protette. Ricordo che l’ecosistema dell’Adriatico è già  messo costantemente a repentaglio sia dal transito di petroliere (l’ultimo incidente è avvenuto il 16 settembre di quest’anno nel porto di Ancona) che dalla presenza di piattaforme (circa un’ottantina quelle operative) e, a causa della particolare conformazione “chiusa” di questo mare, in caso di sversamento di greggio nelle acque le conseguenze ambientali sarebbero devastanti e irreversibili. Ma, nonostante questi rischi e nonostante lo stesso ministero dello Sviluppo stimi che sui fondali ci siano riserve di petrolio che, considerando i consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane, il governo punta a insediare altre decine di trivelle.
Oltre che sul petrolio, Monti e Passera scommettono sul gas, con l’obiettivo di trasformare l’Italia in un megahub sud-europeo. Si tratta di un’altra scelta incomprensibile, che comporterebbe un impatto ambientale sul territorio notevolissimo in termini di infrastrutture e non produrrebbe benefici apprezzabili riguardo il costo dell’energia. Infine il carbone. L’Enel non ha rinunciato alla riconversione a carbone della centrale di Porto Tolle, sulla quale, anzi, punta grazie a un impianto che viene definito a «zero CO2» ma che in realtà  rimane altamente inquinante. Anche se, infatti, si verificasse che il progetto di cattura e stoccaggio del CO2 post-combustione (CCS) fosse effettivamente in grado di ridurre l’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera, l’impatto sanitario della centrale sul territorio rimarrebbe comunque fortissimo a causa dell’emissione degli altri inquinanti, che interesserebbe buona parte della Pianura padana, area in cui la concentrazione di particolato ha già  raggiunto livelli critici. Il governo, dunque, decidendo di puntare su petrolio, gas e carbone – fonti inquinanti, obsolete e costose – sta attuando una politica economica che va contro gli interessi del paese: il rilancio delle attività  estrattive dovrebbe comportare un investimento di 15 miliardi di euro, la costruzione di centrali a carbone di “nuova generazione” la spesa di 2,5 miliardi a impianto, mentre il fantomatico hub del gas implicherebbe la costruzione di una rete di rigassificatori e di gasdotti di cui è addirittura difficile ipotizzare il costo finale. A fronte di questi investimenti ingenti, i ritorni occupazionali sarebbero assolutamente modesti e tutti da verificare: il governo parla di 25.000 posti di lavoro nel settore delle trivellazioni ma, contemporaneamente, ammette che «lo scenario di sviluppo è articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio»; la centrale di Porto Tolle, nei 6 anni di cantiere prevede l’impiego medio di 1500 unità  mentre, una volta entrata in esercizio, assorbirà  al massimo 700 persone, indotto compreso; dall’entrata in funzione, infine, dei rigassificatori già  dotati di autorizzazione deriverebbe l’assunzione di meno di un migliaio di persone. Un piano di investimenti, pertanto, del tutto miope, la cui inconsistenza è certificata, fra l’altro, da un recente studio del Political Economy Research Institute dell’Università  del Massachusetts, che ha cercato di quantificare l’occupazione generata mediamente da un investimento di 1 milione di dollari Usa nelle diverse fonti energetiche: ebbene, quelle sulle quali ha deciso di investire il governo italiano sono caratterizzate dal peggior rapporto investimenti/occupazione: 5 dipendenti per milione nel caso del gas e 7 nel caso del carbone, a fronte delle 13 unità  per milione dell’eolico, delle 14 del fotovoltaico e delle 16 per le biomasse. Del resto, lo sviluppo registrato negli ultimi anni in Italia dalle energie rinnovabili è la dimostrazione incontrovertibile della rilevanza strategica di questo comparto per le sorti energetiche ed economiche del nostro paese: nel 2011 la produzione di elettricità  da fonti rinnovabili ha raggiunto gli 84 TWh, pari al 28% della produzione nazionale e a oltre il 24% del consumo interno lordo, nel pieno rispetto degli obiettivi europei al 2020, che anzi sarebbero ampiamente superati se il settore fosse adeguatamente supportato in sede legislativa. Le ricadute occupazionali sono state straordinarie: oltre 100.000 nuovi posti di lavoro creati negli ultimi anni – con età  media degli addetti inferiore ai 35 anni – che, secondo le previsioni della Commissione Europea, potrebbero divenire 210.000 da qui al 2020. Obiettivo però inattuabile senza procedere a una effettiva liberalizzazione del mercato elettrico, sulla base della quale, occorrerebbe poi mettere in cantiere alcuni interventi mirati e tempestivi rivolti sia alle aziende – l’introduzione/estensione di detrazioni fiscali sulla spesa iniziale e l’accesso agevolato al credito – che ai consumatori – in particolare la promozione dell’autoconsumo e la possibilità  di riunirsi in consorzi di autoproduzione. Anche la riqualificazione energetica e la ristrutturazione ecosostenibile dei centri storici potrebbe assicurare, oltre alla valorizzazione del patrimonio architettonico, numerosi nuovi posti di lavoro.
Ma il governo Berlusconi prima e quello Monti poi hanno deciso di percorrere una strada del tutto diversa e invece di far ruotare le prospettive di ripresa attorno alla costruzione di un modello energetico alternativo – come ha fatto, ad esempio, la Germania – hanno assestato negli ultimi due anni una serie di colpi durissimi al settore delle rinnovabili: l’incertezza normativa, il taglio degli incentivi statali, le imposizioni burocratiche (obbligo di iscrizione al registro, introduzione del meccanismo delle aste ecc.) hanno di fatto messo in ginocchio il settore. Quasi un terzo delle imprese è stato già  costretto a chiudere i battenti (-24% di occupati nel 2012 e un ulteriore – 7% previsto per il 2013) e altri 6000 posti di lavoro sono a rischio nei prossimi mesi. Sono numeri imponenti e terribili – è come se l’intera forza lavoro occupata presso la Fiat fosse stata licenziata – che tuttavia passano sotto silenzio, nel sostanziale disinteresse dei media e delle istituzioni. Tale atteggiamento è tanto più colpevole all’indomani di una vicenda – questa sì, e per fortuna, al centro delle cronache – quale quella dell’Ilva di Taranto, che segna un punto di non ritorno nel rapporto – storicamente conflittuale – fra produzione e ambiente, tra lavoro e salute; essa è una delle tante esemplificazioni paradigmatiche del disfacimento di un modello di sviluppo, quello novecentesco, che, giunto al capolinea, si congeda con un lascito di morte. Se è vero che, soprattutto in un momento di crisi come quello attuale, ogni soluzione di carattere congiunturale volta a preservare l’occupazione è meritevole di attenzione, è anche vero che il caso dell’Ilva dimostra però che un’economia imperniata sul ricorso maggioritario alle fonti fossili e inquinanti non è più in grado di garantire neppure i posti di lavoro!
Per combattere questa deriva non basta fare affidamento sulla green economy – che, presa in sé, è solo un tentativo di emendare giudiziosamente le residue velleità  di crescita perpetua e incontrollata dell’economia capitalistica, permettendole di sopravvivere ai danni ambientali che essa stessa ha creato – ma occorre lavorare, prima che a un altro modello di sviluppo, a un altro modello di vita, che metta al centro le persone, le comunità  e i territori e che sia improntato alla cooperazione e alla condivisione delle risorse. In questo contesto, il ricorso alle energie rinnovabili potrebbe essere una grande opportunità  di innovazione, e fungere da supporto e integrazione a svariate esperienze di cooperazione sociale. Penso, per esempio, al cohousing e al coworking: piccole comunità  – nel primo caso – i cui componenti decidono di condividere un insediamento abitativo in cui trovano posto sia alloggi privati che spazi destinati all’uso comune, corredati di servizi collettivi (cucine, lavanderie, biblioteche, ecc.); ambienti di lavoro comuni – nel secondo caso – in cui più persone svolgono attività  indipendenti e diversificate condividendo, oltre lo spazio, anche gli arredi e gli strumenti di lavoro (in genere informatici) ma soprattutto idee e competenze. Nel Nord Europa, dove sono nate, queste comunità , improntate al criterio dell’efficienza energetica e del minimo impatto ambientale, autoproducono in genere l’energia necessaria facendo ricorso a fonti rinnovabili – che vengono utilizzate, talvolta, anche per alimentare forme di trasporto collettivo (per esempio mediante il car sharing di vetture elettriche) – e attraverso microgrids (microreti), che consentono la riduzione al minimo delle perdite di energia (essendo l’elettricità  generata più vicino alle utilities) e la diminuzione della domanda di trasmissione da parte delle infrastrutture. Si tratta di esperienze che cominciano ad affacciarsi anche nel nostro paese e che sarebbe auspicabile si diffondessero il più possibile, sia perché dimostrano che le risorse rinnovabili possiedono grandi potenzialità  sociali oltre che energetiche, sia perché impongono un ripensamento dello stesso modo di “fare impresa”.


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