UN’ALTERNATIVA ALL’AUSTERITY
IL MESSAGGIO è rivolto agli americani e al Congresso, ma è anche valido come “dottrina Obama” verso il resto del mondo. Il presidente parla per la prima volta dopo la sua rielezione. Lo fa mentre gli si apre una voragine alla Cia, uno scandalo travolge il capo dell’intelligence David Petraeus, già protagonista come militare nelle guerre in Iraq e in Afghanistan. L’avventura extraconiugale su cui cade il direttore della Cia s’intreccia con l’affaire Bengasi: l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia, che la destra aveva usato contro Obama (accusando la Cia di avere ignorato minacce di attentati, e richieste di rinforzi). La “bomba Petraeus”, opportunamente rinviata al dopo-elezioni con un tempismo che insospettisce e solleva critiche da parte dei media americani, ha in parte distolto l’attenzione da quello che per Obama doveva essere il primo grande evento nel dopovoto.
Il grande cantiere che viene annunciato dal presidente è quello economico e sociale: una solida alternativa all’austerity. Sarà il banco di prova dei prossimi quattro anni, quello che Obama definisce parlando dalla Casa Bianca. Priorità al lavoro: “Il mio secondo mandato sarà anzitutto dedicato ai disoccupati”. C’è il secco rifiuto di un “rigore sbilanciato”, cioè che pesi prevalentemente sui dipendenti. A soli tre giorni dalla memorabile serata elettorale, Obama trae la conclusione di quel verdetto: “Gli americani si sono pronunciati martedì sera, hanno parlato chiaro e forte”. Un gesto davvero forte lo fa lui minacciando il veto presidenziale contro gli ostruzionismi della destra. Alla Camera dove i repubblicani sono ancora in maggioranza, offre un ramoscello di ulivo per consentire intese bipartisan: “Sono aperto a un compromesso”. Vi aggiunge però il suo deterrente più micidiale: userà il potere di veto contro qualsiasi manovra di bilancio che escluda “un maggiore prelievo fiscale sui più ricchi, quelli oltre i 250.000 dollari annui, cioè quelli che guadagnano come me”. Il “New-New Deal” di Obama si fonda su infrastrutture, energie rinnovabili, istruzione e ricerca scientifica “per ricostruire la leadership americana”.
È il vero segnale d’inizio del secondo mandato. Un esordio anticipato, visto che istituzionalmente Obama Due s’inaugura a gennaio con la cerimonia dell’insediamento. Ma il presidente afferra un’emergenza e la trasforma in opportunità . L’emergenza è il “precipizio fiscale”: fra 50 giorni scatta una mannaia automatica di tagli di spese pubbliche e rialzi di aliquote fiscali, se prima di allora non c’è un’intesa tra Casa Bianca, Camera (repubblicana) e Senato (democratico). Questo è il risultato del lungo
e defatigante stallo dell’ultimo anno e mezzo, quando i repubblicani non esitarono a scatenare un downgrading del rating sovrano degli Stati Uniti (da parte di Standard & Poor’s) minacciando di non votare la legge di rifinanziamento del debito pubblico. Di fronte a quel ricatto Obama escogitò un armistizio provvisorio, fondato su una sorta di “distruzione reciproca”. Fece votare 700 miliardi di risparmi, in parte tagli di spesa e in parte inasprimenti fiscali, una vera bomba ad orologeria il cui conto alla rovescia si esaurisce il 31 dicembre. Tutti gli sgravi fiscali dell’èra Bush verrebbero annul-lati, tutti i contribuenti americani sarebbero costretti a pagare di più, se la nazione finisce nel “precipizio fiscale” di fine anno. È sotto la minaccia di questa Apocalisse – o più prosaicamente, di una ricaduta in recessione per l’impatto di quei tagli – che il presidente apre le grandi manovre con il Congresso. Il suo interlocutore più ostico è lo Speaker della Camera, John Boehner, che presiede quel ramo del Congresso dove i repubblicani hanno salvaguardato la maggioranza. Il massimo punto di discordia riguarda proprio il segno di equità delle manovre fiscali e di bilancio. In questo senso la battaglia è decisiva non solo per il futuro dell’economia americana, ma anche come modello per il resto del mondo a cominciare dall’eurozona. Obama si fa carico di disegnare un’alternativa all’austerity, di coniugare una seria terapia di risanamento del deficit, con politiche di sostegno dell’occupazione e investimenti di lungo periodo. La risposta della destra nelle prime battute è un déjà vu. “Alzare le tasse sui più ricchi vuol dire colpire quegli stessi imprenditori che possono creare posti di lavoro”, gli ribatte Boehner riecheggiando un leitmotiv della campagna elettorale di Mitt Romney. Ma Romney ha perso e Obama ha vinto. “Gli elettori hanno riconfermato la maggioranza repubblicana alla Camera”, puntualizza Boehner. L’impressione è quella di un dialogo tra sordi come nell’ultimo biennio, quando le iniziative di Obama sono state sistematicamente boicottate. E tuttavia qui siamo alle battute iniziali di una partita diversa. Nella destra deve cominciare la grande resa dei conti, emergeranno probabilmente nuovi leader e strategie più moderate, se i repubblicani non vogliono andare incontro a un disastro nelle legislative del mid-term 2014. La minaccia del veto presidenziale contro leggi fiscali che non contengano un segno redistributivo, è molto importante. Mette i repubblicani con le spalle al muro: se si ostinano a difendere “il due per cento” dei privilegiati, faranno scattare pesanti tagli di spesa anche nel budget della Difesa (un tabù per la destra), nonché rialzi d’imposte su tutto il 98% rimanente dei contribuenti. Il gioco sarà duro, e Obama lo apre dando un segnale di determinazione.
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