Una concreta astrazione

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Una vita molto lunga, quella di Rodolfo Mondolfo: a chi ne ricostruisca i lineamenti di pensiero e di militanza intellettuale, essa consente di tenere sotto osservazione parecchie generazioni dell’Italia migliore, ma anche di quella che non reagì con la dovuta prontezza al primo insinuarsi delle ombre che trasformarono il paese in battistrada del totalitarismo europeo.
Coerente ma non ossessivamente immobile, attento anche alle sollecitazioni della cronaca ma mai vittima di superficialità  e di improvvisazione nella ricerca di nuovi orientamenti e di nuovi stimoli, Mondolfo attraversa il XX secolo con una partecipazione così intensa da far pensare immediatamente a grandi nomi dell’emigrazione ebraica antinazista, soprattutto tedesca. Da Hannah Arendt a Hans Jonas fino agli esponenti di quella che sarà  la scuola di Francoforte, i protagonisti del breve – e per certi versi già  condannato al fallimento – tentativo di rinascimento successivo alla Grande guerra furono costretti a portare fuori del continente europeo un groviglio di fermenti intellettuali e di tesori scientifici che non è retorico definire unico e irripetibile. Nel caso di Mondolfo, peraltro, abbiamo a che fare con un protagonista anche di tutta la fase prebellica. 
In realtà  Mondolfo si trova immerso in una costellazione che a nostro avviso trova un punto di grande densità  nel 1923, quando Lukà¡cs pubblica Storia e coscienza di classe. Con un anticipo di almeno un decennio, Mondolfo percepisce ciò che dal libro del filosofo ungherese affiora con chiarezza: si sta consumando, dopo l’offensiva positivistica e ben al di là  di essa, un divorzio tra marxismo e scienze sociali, tra patrimonio teorico delle classi lavoratrici e grande cultura borghese, che rischia di confinare il marxismo in una condizione di nicchia. Ma un marxismo sospinto in una innocua periferia ha una ridottissima capacità  di incidere e perde quella che dovrebbe essere una delle sue prerogative: la critica dell’ideologia. Quando le scienze sociali «borghesi» spiccheranno il volo per consolidare la loro autonomia (anche in senso accademico e istituzionale), lo faranno senza cercare una seria interlocuzione con il marxismo, e contribuendo così a condannare quest’ultimo a una lunga storia di lacerazioni interne tanto virulente quanto improduttive. E anche quando gli esiti e i percorsi delle scienze sociali mostreranno un volto apertamente conservatore o apologetico, non troveranno più una teoria marxista tanto compatta e al tempo stesso tanto articolata da essere in grado di contrastarli. 
Le armi dell’educazione
Aiutato dai suoi esordi di teoria della conoscenza (non quindi di teoria politica o di filosofia sociale), Mondolfo sente che il fronte di lotta è molto ampio, quasi indominabile: il marxismo è stretto nella tenaglia di positivismo e idealismo. Anche la cultura «borghese» non vive giorni di chiarezza e di autoconsapevolezza, se è vero che, perduta la battaglia con il montante irrazionalismo vitalistico, lascerà  campo libero agli spiriti più selvaggi e non offrirà  soverchie resistenze alle raffazzonate teorie che accompagneranno il trionfo dei totalitarismi europei: dal razzismo al determinismo biologistico, dal disprezzo dei diritti al delirio bellicistico.
Ma la cultura delle classi dominanti non ha il problema di una progettualità  trasformatrice: si limita a propugnare la conservazione dell’esistente, e quando non ci riesce apre le porte alle potenze dell’irrazionale, purché queste assolvano il medesimo compito di allontanare l’emancipazione degli oppressi. Di tutt’altro calibro è il compito di chi pensa la trasformazione dell’esistente in termini di impresa storico-umana di grande respiro. Ecco perché qualsiasi forma di determinismo materialistico sembra a Mondolfo una risposta inefficace e perdente. Quando Mondolfo apre, anche come traduttore del Discorso sulle arti e sulle scienze e del Discorso sulla disuguaglianza, il suo fitto dialogo con Rousseau – un autore che è sempre stato, con alterne fortune, nei paraggi del movimento socialista -, non pensa certo alla riabilitazione di un mitico stato di natura e di innocenza che già  Rousseau aveva classificato come mai storicamente esistito. Mondolfo, piuttosto, da un lato prepara il terreno alla sua stessa riflessione sull’educazione, dall’altro prende di petto tre temi – libertà , uguaglianza, proprietà  – che esigono argomentazioni non affrettate e non raccogliticce. Rousseau non paventa quelle che oggi sarebbero rubricate con sussiego come «grandi narrazioni»: ciò che paventa, anzi, è l’insinuarsi di idee precostituite che falsificano l’argomentazione. Il caso più evidente è quello della retroproiezione di immagini dello stato civile sullo stato di natura, secondo un movimento di pensiero che a parere di Mondolfo appartiene a Hobbes. Analogamente, Mondolfo diffida della settorializzazione positivistica dei linguaggi: non ha paura di «ricominciare da zero», perché fa coincidere la radicalità  con il rifiuto di frammentazioni estrinseche e meccaniche.
Non è allora azzardato affermare che l’incrocio tra il problema educativo e quello del rapporto tra élites e masse pone Mondolfo a contatto con la nostra più stretta, e più irrisolta, attualità  politica. Davanti a noi sfilano i protagonisti di una stagione che ha tenuto a battesimo la teoria delle élites: Gaetano Mosca, Robert Michels e Vilfredo Pareto. Ma non è solo questo il punto, giacché quella vicenda non seppe mai risollevarsi da un fondo di mediocrità  filosofica che sperperò anche gli spunti passibili di approfondimento. La vera sfida consiste nel rispondere alla massificazione affilando le armi sull’educazione, non da ultimo per non consegnare la massificazione a quel vasto sommovimento di segno populista che cerca, e poi purtroppo talvolta trova, sbocchi autoritari.
A Mondolfo non sfugge, infatti, che il pedagogismo dall’alto, mediato dal partito e non alieno da tratti scopertamente paternalistici, è uno degli ingredienti non accidentali del movimento comunista. Passa anche di qui il confronto con il leninismo e con la rivoluzione d’ottobre. La pur ricchissima esperienza ordinovista ne viene coinvolta: nell’«ordine nuovo», la potenza ordinativa e disciplinatrice del primo termine è superiore alle promesse di novità  e di rigenerazione contenute nel secondo. La disciplina di fabbrica sembra configurare la migliore piattaforma preparatoria di uno stadio superiore dei rapporti di classe. Soprattutto, essa sembra risolvere provvidenzialmente l’esigenza di ricomporre i segmenti degli sfruttati, sottraendoli alla frammentazione di poteri arcaici e precapitalistici. Rimangono però alcune domande inquietanti. Plasmare dall’alto le masse? E con quale prospettiva di durata e di radicamento? Anche quando sarà  in Argentina, ciò che per molti è un magistero – il pensiero di Gramsci – apparirà  a Mondolfo come un patrimonio sempre degno di rispetto, ma mai da condividere in blocco e a scatola chiusa. 
Chi scrive appartiene a una generazione politico-intellettuale che in larga misura accettò e fece propria, sbagliando, la frattura tra un Marx umanista, allievo di Hegel ed esponente di primo piano della sinistra hegeliana, e un Marx scienziato, o addirittura tra un Marx profeta e un Marx analista del modo di produzione capitalistico. Quella frattura fu sanzionata dalla celebre coupure (rottura) individuata da Louis Althusser. Ma la posta in palio non era certo la fedeltà  ai testi marxiani. Un’immagine più unitaria di Marx avrebbe dato una risposta più efficace a strozzature antiche dello sviluppo economico-sociale italiano senza per questo smarrire la necessaria astrazione teorica: quella che, nell’edificio teorico di Marx, studia le condizioni di trasformazione dei rapporti materiali e di classe. Nell’itinerario di quella generazione mancarono all’appello – o non furono più disponibili nella «cassetta degli attrezzi» di uso quotidiano in un pensiero critico – autori che, da Salvemini a Gobetti allo stesso Mondolfo, avrebbero potuto essere preziosi: uomini certamente molto diversi e spesso anche in conflitto tra loro, ma accomunati da una lucidità  di sguardo quale forse, più tardi, è stato dato trovare solo in Norberto Bobbio. Perfino Gramsci fu sospinto ai margini del dibattito, nonostante il suo crescente successo internazionale e il credito accumulato in terre, come quelle dell’America Latina, tradizionalmente segnate da conflitti politici aspri e violenti.
Oltre il progressismo
Provincialismo esterofilo? Vocazione sotterraneamente scientistica? Difficile individuare le cause del mancato incontro tra la prima generazione intellettuale di formazione non comunista e la tradizione del marxismo italiano. Forse conviene spostare lo sguardo altrove. Ciò che allora – in una fase, non va dimenticato, di espansione economica – sembrava importante era l’acquisizione di una morfologia del modo di produzione capitalistico che fosse valida al di là  delle specificità  nazionali. In questo quadro, l’intransigenza classista delle tradizioni teoriche della sinistra italiana appariva insufficiente o assente, mentre molte remore culturali sembravano militare a favore di un progressismo annacquato e tendente alla conciliazione. Per il versante non solo letterario della questione, difficilmente si può sorvolare sulla rilevanza di un libro come Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa. Ma ciò di cui allora non ci si accorse è che il compito più difficile consiste nel riguadagnare le sponde del concreto, dei contesti storici determinati, delle forze materiali in campo, dopo averle necessariamente accantonate a favore della pur necessaria costruzione di princìpi astratti di interpretazione della storia. Assicurati i quali, le concrezioni prima o poi sarebbero affiorate, secondo un modulo di pensiero che sfiorò l’ottimismo religioso. Ben si può dire che il marxismo italiano ai suoi esordi ha compiuto, con difficoltà  e con incertezze ma sempre con dignità  e passione, il cammino inverso: dal concreto all’astratto. È un’indicazione che ancora oggi non è possibile ignorare.

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Un materialista mite Dall’Italia all’Argentina

Rodolfo Mondolfo è stato, tra gli anni dieci e venti del Novecento, uno degli intellettuali di spicco del Partito socialista. Partecipò alla vita della rivista di Filippo Turati «Critico sociale». Entrato giovanissimo all’università  come docente, alternò la ricerca alla militanza politica. Dopo l’ascesa del partito fascista al potere, firmò nel 1926 il «manifesto degli intellettuali antifascisti» redatto da Benedetto Croce. Con la soppressione delle libertà  politiche da parte del regime fascista, Mondolfo continuò la sua attvità  di docente, concentrando la sua attenzione sulla filosofia greca, visto il divieto di circolazione delle opere di Marx. Dopo le promulgazione delle leggi razziali fasciste che vietavano l’insegnamento agli ebrei, Mondofo lasciò l’Italia, trasferendosi in Argentina, dove riprende lo studio dell’opera di Marx. Con l’avvento al potere di Peron, Mondolfo decide di non partecipare alla vita politica argentina, concentrandosi sul lavoro di ricerca. Tra i libri pubblicati, vanno ricordati: «Il materialismo storico in Federico Engels» (La Nuova Italia); «Sulle orme di Marx», «L’infinito nel pensiero dei Greci» (La Nuova Italia). «Da Ardigò a Gramsci» (Nuova Accademia); «Il concetto dell’uomo in Marx»; «Umanismo di Marx» (Einaudi); «Il contributo di Spinoza alla concezione storicistica»; «Polis, lavoro e tecnica» (Feltrinelli).

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SCAFFALI
Una «prassi umanista» in nome di Marx

Intellettuale apprezzato in America latina e in Spagna, Rodolfo Mondolfo è un nome che in Italia è ricordato per i suoi saggi – degli anni Trenta del Novecento – sulla cultura greca o per alcuni scritti dedicati a Rosseau. Eppure, assieme a Antonio Labriola, è stato uno dei primi studiosi italiani che si è confrontato con gli scritti marxiani, proponendo l’autore del Capitale come un antidoto sia dell’idealismo di Croce e Gentile che del positivismo. Quella che viene pubblicata in questa pagina è la prefazione alla monografia della ricercatrice Elisabetta Amalfitano dedicata a Rodolfo Mondolfo che esce in questi giorni con il titolo «Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo» (L’Asino d’oro edizioni, pp. 210, euro 18). 


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