by Sergio Segio | 7 Novembre 2012 5:51
La “quota blu” quasi monopolistica per le posizioni di vertice in economia, come e forse più che in politica, continua a resistere, rendendo insopportabile il fatto che invece si continui a parlarne come un problema di quote rosa. Le donne sono poco presenti non solo nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa — quelle cui è rivolta la nuova normativa che impone un riequilibrio. La loro presenza è rarefatta anche ai livelli precedenti, man mano che, appunto, ci si avvicina ai vertici. Non dipende solo dal fatto che ci sono meno donne che uomini nel mercato del lavoro. Anzi, stante che in Italia la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è particolarmente squilibrata a favore delle più istruite, ci si potrebbe aspettare che queste non siano sfavorite nella competizione per le posizioni di vertice. L’istruzione se favorisce l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, non sembra invece valere per le donne nella stessa misura che per gli uomini per quanto riguarda l’accesso alle carriere. Soprattutto nel settore privato, rimangono schiacciate ai livelli medio- bassi delle carriere. Ed ogni passaggio in avanti, se avviene, richiede loro il doppio del tempo dei loro colleghi, pur a parità di istruzione e esperienza professionale. È un altro dei tanti spread negativi che contraddistinguono l’Italia dalla maggior parte dei paesi sviluppati (e non solo) che meriterebbero altrettanta attenzione di quello rispetto ai Bund tedeschi. Sullo sfondo di questo quadro deprimente, il piccolo aumento nella percentuale di dirigenti donne — rilevato da Manageritalia su ricerche di diversi istituti — in questi anni di crisi è un segnale da leggere con attenzione, specie a fronte del fatto che i dirigenti nel complesso, di fatto i maschi, hanno perso posti di lavoro, ancorché in misura molto minore a quanto è avvenuto a operai e impiegati. Non credo che si tratti di un improvviso segno di conversione da parte dei capi azienda che finalmente hanno iniziato a metabolizzare quanto diverse ricerche internazionali vanno documentando, ovvero che le donne dirigenti sono più affidabili, più disponibili a imparare e mettersi in discussione, a lavorare in squadra e così via. Certo, forse cominciano a “vedere” le molte donne che lavorano bene e con competenza nelle loro aziende e a promuoverne qualcuna ogni tanto, con cautela.
Credo tuttavia che la maggior tenuta, e il miglioramento, della piccola minoranza femminile derivi innanzitutto dalla diversità dei settori in cui sono occupati prevalentemente uomini e donne e da come sono stati colpiti dalla crisi. È noto che questa ha colpito prevalentemente l’industria manifatturiera, che vede una prevalenza di uomini a tutti i livelli, divenendo quasi monopolistica ai vertici. Non sorprende quindi che anche qualche dirigente uomo sia stato colpito, o che non ci sia stato turnover in caso di pensionamenti. Il settore privato dei servizi, incluso il terzo settore, ha tenuto meglio. Il terzo settore, in particolare, è anche uno dei pochi che ha creato nuova occupazione, benché ultimamente stia entrando in affanno anch’esso. Si tratta appunto dei settori in cui sono anche più presenti dirigenti (ed anche imprenditrici) donne. E dove prevalgono aziende di piccole dimensioni. Questo può anche spiegare in parte il dato apparentemente sorprendente, ma non nuovo, della maggiore incidenza — in termini proporzionali, non in numeri assoluti — di donne dirigenti in alcune regioni meridionali, poco industrializzate e a bassa occupazione, rispetto a quelle del Nord delle grandi, ma anche medie e piccole imprese industriali, dove pure le donne partecipano al mercato del lavoro e sono occupate in misura molto maggiore.
Rallegriamoci dunque, ma con molta moderazione.
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