“Un aggregato di potere con poca logica industriale”

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Sia gli analisti che gli esperti del settore bocciano sonoramente l’ipotesi girata nei giorni scorsi di un avvicinamento tra le due principali banche del paese, in un’ottica difensivista contro possibili attacchi dall’estero sulla pedina più vulnerabile, cioè Unicredit. Dopo l’aumento di capitale monstre da 7,5 miliardi del gennaio 2012, infatti, i soci italiani della banca di Piazza Cordusio si sono trovati più deboli di prima: complessivamente tra fondazioni e privati investitori come Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone gli italiani controllano appena il 15% del capitale. «Ciò significa che l’85% della banca è in mano al mercato e ai fondi prevalentemente stranieri che non farebbero mai passare un’operazione in cui si aumenta il rischio Italia e si blindano i salotti», è la lucida considerazione di un protagonista del mondo delle fondazioni.
Tuttavia, sempre dalle parti di Piazza Cordusio, c’è qualcuno che teme di perdere potere e poltrona se solo tre o quattro investitori istituzionali come i russi di Pamplona, gli arabi di Aabar e qualcun altro unisse le forze per cambiare l’assetto dell’attuale consiglio di amministrazione. Inoltre l’arrivo di Giuseppe Vita alla presidenza, un manager che è stato per anni al vertice di imprese tedesche, dalla Schering alla Axel Springer (di cui è tuttora presidente del consiglio di sorveglianza), ha rinfocolato l’idea che entità  tedesche possano essere interessate a riprendersi l’Hypovereinsbank e magari anche altre banche del “franchise” estero di Unicredit, che negli anni buoni sono state messe insieme da Alessandro Profumo. Il fatto poi che Deustche Bank abbia assistito finanziariamente sia Aabar che il fondo Pamplona nell’acquisizione delle loro azioni Unicredit ha alimentato questi sospetti, anche se al momento non si hanno elementi per dire che i tedeschi siano all’opera. «Adesso sono impegnati nella tornata elettorale ma quando avranno le mani libere potrebbero mettere gli occhi su una realtà  come Unicredit», dice un banchiere bene addentro alle vicende internazionali. Evidentemente qualcuno con le antenne dritte ha percepito dei segnali e ha lanciato d’allarme.
È da quest’estate che i più alti rappresentanti delle fondazioni dei due gruppi bancari si stanno parlando, per trovare una soluzione anche alla debolezza capitalismo italiano, in questa fase più acuta che mai. E dunque è anche possibile che la potenziale vulnerabilità  di Unicredit possa essere utilizzata ad arte come spauracchio per giustificare una sorta di blindatura dei punti nevralgici del sistema. Non è un mistero, infatti, che un’eventuale fusione tra Intesa Sanpaolo e Unicredit avrebbe come effetto non secondario quello di creare un enorme aggregato di potere che includerebbe Mediobanca, Generali, Rcs, Telecom, Pirelli e che in questo momento arriverebbe fino a Unipol-Fonsai visto che una parte delle azioni degli aumenti di capitale è rimasta inoptata. Insomma un modo molto antico, si potrebbe dire alla Cuccia, di stendere un cordone di sicurezza dal mondo che fa riferimento alle fondazioni di origine bancaria, strette attorno all’Acri del sempreverde Giuseppe Guzzetti (che in privato però si schermisce). Tra tutte, quelle attualmente azioniste di Intesa insieme a quelle socie di Unicredit, riuscirebbero a totalizzare un 25% del nuovo mega polo in grado di fronteggiare qualsiasi scalata. Purtroppo tutto ciò va in direzione opposta a quella indicata dalla regolamentazione europea, che ha imposto un sovrappiù di capitale per le banche too big to fail, cioè gli istituti a rischio sistemico. Si avrebbero sovrapposizioni enormi in Italia e si dovrebbe far fronte a licenziamenti per decine di migliaia di dipendenti nel tentativo di realizzare sinergie sul fronte dei costi, visto che i ricavi sono fermi a causa della crisi. Insomma un’operazione che, se esiste veramente, parte tutta in salita.


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