Tutti i segreti della «Chicago machine»

by Sergio Segio | 8 Novembre 2012 7:26

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CHICAGO — I cartelli azzurri con scritto «keep calm and carry on», state calmi e continuate, un frase coniata dalla propaganda inglese durante il blitz nazista nei cieli di Londra, sono ancora attaccati ai lunghi tavoli e agli schermi dei computer. Il tavolo da ping pong è sempre lì, ma non c’è nessuno a giocare. Il mattino dopo la vittoria più bella e sofferta, il quartier generale della campagna di Barack Obama è quasi deserto. La «Bestia» che ha ruggito per mesi, per poi lanciare con successo un micidiale assalto finale, appare adesso come spossata, rilassata, vogliosa solo di assopirsi.
Solo Jim Messina, il suo domatore, l’uomo che ha guidato la più sofisticata e rivoluzionaria macchina da guerra elettorale a memoria d’uomo, è tornato al suo posto. I soliti pantaloni beige, la solita camicia botton-down azzurra, l’aria mite e il passo ciondolante, ci saluta cordialmente, ma brevemente: «Abbiamo fatto un buon lavoro», dice con il suo tradizionale understatement, prima di chiudersi in una stanza con la porta a vetri.
Poche ore fa, il presidente rieletto ha reso omaggio alla «migliore squadra nella storia della politica». «Qualunque cosa farete, ovunque andiate, porterete con voi il ricordo della Storia che abbiamo fatto insieme e la stima eterna di un presidente grato. Grazie per averci creduto sempre». Messina, David Axelrod, David Plouffe, Robert Gibbs, Jon Favreau, Ben Rhodes si guardavano con occhi commossi.
È stata una scommessa a rischio, quella degli uomini di Obama. Quando nella scorsa primavera, Messina si era presentato alla Casa Bianca per spiegare al presidente la strategia poco ortodossa messa a punto con Axelrod e gli altri, era stato anche sincero. L’idea di investire subito il 20% dei fondi per attaccare Romney ad alzo zero già  in estate, immortalandolo negativamente nella percezione degli elettori, poteva funzionare. Ma se fosse fallita, avrebbe dissanguato le casse della campagna, lasciandola disarmata nelle concitate fasi finali in autunno.
Non era più tempo di visioni e promesse. L’economia in affanno rendeva obsoleta la retorica del cambiamento e della speranza. Far campagna spiegando agli americani che avrebbe potuto essere molto peggio, ricordando loro il disastro ereditato da Bush, non sarebbe mai bastato. Occorreva una tattica aggressiva, tesa a smontare l’avversario. L’icona di questa linea fu lo spot estivo in cui Romney cantava stonando America the Beautiful, mentre una serie di immagini si susseguivano commentate da una voce: «Mitt Romney ha trasferito posti di lavoro in Cina e Messico, ha depositato milioni in una banca svizzera, ha investito in paradisi fiscali come le Bermuda e le Cayman Island. Mitt Romney non è la soluzione, è il problema». L’efficacia di questa offensiva è stata devastante, con lo sfidante sempre costretto a lavorare per impossessarsi della propria narrativa. Solo dopo il primo dibattito, Romney c’è in parte riuscito. Ma a quel punto, altri fattori hanno cominciato a lavorare in favore del presidente: la sua reazione, la discesa in campo di Bill Clinton che ha risollevato il campo democratico, la buona prova offerta nell’emergenza dell’uragano Sandy.
Demolire Romney è stata però solo una parte del teorema democratico. In realtà  la campagna per la rielezione di Obama era cominciata già  nel dicembre di quattro anni fa, quando uno dei guru meno conosciuti di Obama08, un trentenne di nome Jeremy Bird, era rimasto a Chicago, in un minuscolo ufficio di poche stanze, a preparare la futura battaglia. Bird è il genio del ground game, cioè il lavoro di persuasione e mobilitazione diretta degli elettori casa per casa, uno per uno. Un’arte antica e nota a chiunque abbia mai fatto un po’ di politica. Ma un’arte che Bird ha elevato a incredibili livelli di capillarità  e precisione, grazie a centinaia di uffici locali animati da migliaia di volontari e soprattutto all’uso della stregoneria politica del micro-targeting. Combinando migliaia di dati sui consumatori con le nuove tecnologie come le applicazioni per tablet e smartphone, la campagna di Obama è infatti riuscita a calibrare i suoi messaggi alle caratteristiche sociali, economiche, etniche di ogni famiglia e individuo.
L’esempio più emblematico? La propaganda nelle barberie e nei saloni di bellezza, luoghi molto frequentati da afroamericani e ispanici. I volontari li inondavano di materiale elettorale, con il consenso dei proprietari. Poi ripassavano regolarmente, per discutere con i clienti, motivarli, aiutarli nella compilazione delle schede di registrazione elettorale. Bird considera un precetto la perla di saggezza regalatagli da un vecchio figaro: «Vai in chiesa per trovare il bene, in prigione per trovare il male, dal barbiere per trovare la realtà ».

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