Tecnologia contro guerriglia ecco i piani dell’attacco di terra

by Sergio Segio | 18 Novembre 2012 9:13

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BEIRUT â€” Con 16 mila uomini già  pronti ad entrare, altri 14 mila in stand-by e la possibilità  di mobilitarne altri 45 mila — il totale fa 75 mila — le probabilità  che Netanyahu dia il via libera all’invasione della Striscia di Gaza aumentano. D’altronde, come nell’operazione “Piombo Fuso” del 2008 contro Hamas, così come nella guerra contro le milizie Hezbollah nel 2006, arriva sempre il momento in cui l’aviazione e l’artiglieria non bastano a conseguire l’obbiettivo di destrutturare la capacità  offensiva del nemico e bisogna mandare dentro la fanteria per occupare, controllare e “ripulire” il territorio. Questa, nuda e cruda, è la logica militare che sta dietro l’opzione della cos iddetta “ground operation”. La quale, ovviamente, rappresenta un’incognita per l’esercito invasore, perché non sa cosa troverà  sulla sua strada e un incubo per la popolazione che subisce l’invasione. Se dobbiamo stare alle precedenti esperienze, nel caso di “Piombo fuso”, l’invasione ha contribuito a trasformare l’operazione in un fallimento sul piano dell’immagine d’Israele nel mondo, perché quei 1400 morti palestinesi, in gran parte civili, contro i 13 israeliani, pesarono e pesano nel bilancio politico finale. Mentre, la “ground operation” in Libano che concluse la guerra del 2006 è stata archiviata come una pagina nera nella storia israeliana.
Combattimenti casa per casa, quartiere per quartiere, rastrellamenti, requisizioni estemporanee di abitazioni trasformate in postazioni e, insomma, tutto quel calvario collettivo vissuto da migliaia di famiglie inermi durante le tre settimane della guerra precedente: in definitiva, “operazione di terra” vuol dire mettere in conto un salto esponenziale nel numero di perdite civili. La supremazia della Difesa israeliana rispetto alle forze di Hamas è fuori discussione — non soltanto per la qualità  e quantità  delle armi, per le tecnologie avanzate con l’uso di droni, strumenti di visione notturna e dispositivi di registrazione di immagini termiche — anche i raid aerei dei caccia F-16 hanno tutt’altro impatto rispetto ai razzi, ai mortai, ai missili sparati da Gaza.
Però, la “Resistenza” palestinese (così si autoproclama Hamas) fa fronte alla superiorità  con tattiche di guerriglia: conta su una rete di tunnel per assicurare le comunicazioni, e annuncia d’essere pronta a schierare 50 mila uomini lungo le frontiere per frenare l’incursione terrestre, oltre a 5 mila “martiri” in grado di estrarre un alto prezzo a Israele attraverso azioni kamikaze in un eventuale scontro nei centri urbani. In più, Hamas avrebbe prodotto un nuovo missile “autoctono”, l’M75 con una gettata di 75-80 chilometri, e questo avrebbe già  colpito Gerusalemme. Se i militanti di Gaza fossero davvero riusciti a produrre in proprio un missile di lunga gittata, questo sarebbe uno sviluppo preoccupante per Israele. Aggiungerebbe agli obiettivi di Tsahal — circa 70 siti sotterranei di lancio dei razzi di medio raggio — anche i siti di produzione dell’M75 e i responsabili della fabbricazione.
Per questo, Obama e Netanyahu non si sono mai tanto parlati come in questi ultimi giorni. Non solo, anche Ehud Barak e Leon Panetta, i due ministri della Difesa, come i rispettivi vertici militari, sono impegnati in continue conference call. “De-escalation”, è la parola chiave usata nei comunicati della Casa Bianca. Ma è possibile fermare la macchina bellica israeliana? E riuscirà  l’Egitto a convincere Hamas a cessare i tiri di missili contro Israele?
Per tentare di rispondere bisogna capire cosa vogliono, rispettivamente, i duellanti. Per quanto sia cambiato il contesto regionale rispetto al 2008-2009 i termini del conflitto sono più o meno gli stessi. Anche oggi Israele intendente “ristabilire la deterrenza”: impedire che Hamas, e le milizie che hanno trovato a Gaza un loro santuario, attacchino a colpi dei missili le città  israeliane. Gli strateghi israeliani non si pongono il problema di trovare un accordo con un nemico che, tuttora non intende riconoscere l’esistenza dello Stato Ebraico.
Hamas, di contro, se potesse, vedrebbe volentieri cancellato Israele dalla carte geografiche per far posto ad uno Stato palestinese “con Gerusalemme capitale”. Ma si accontenta di una “tregua di lunga durata”.
Questi rimangono i termini dell’equazione, e si capisce bene come alla luce di questo contrasto radicale, le bombe, le vittime palestinesi, come anche il terrore infuso nelle città  israeliane siano, per dirla con il politologo libanese, Rami Khouri, “futili e sprecati”, perché nessuna delle due parti prevarrà  mai sull’altra e l’unica cosa che Hamas è in grado di affermare è la sua capacità  di continuare a combattere, costi quel che costi.

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