by Sergio Segio | 27 Novembre 2012 7:09
Quale potrebbe essere la vostra risposta? «Beh, dipende tutto da quante tasse dovrò pagare sulle plusvalenze che secondo te realizzerei. Se sono troppo alte, preferisco lasciare i soldi sul conto risparmio che mi frutta un bel 0,25 per cento». Una risposta del genere esiste solo nell’immaginazione di personaggi come il fanatico antitasse Grover Norquist.
Tra il 1951 e il 1954, quando le plusvalenze erano tassate al 25 per cento e l’aliquota marginale sui dividendi in casi estremi arrivava fino al 91, io vendevo titoli e non avevo problemi a farlo. Negli anni dal 1956 al 1969 l’aliquota più alta era scesa leggermente, ma era ancora assestata su un ragguardevole 70 per cento, e l’aliquota sulle plusvalenze era salita leggermente, al 27,5 per cento. In quell’epoca gestivo fondi per investitori: non ce n’è mai stato uno che abbia rifiutato un’opportunità di investimento che gli proponevo adducendo come motivazione le tasse. Non solo: quando c’erano quelle aliquote così alte, l’occupazione e il prodotto interno lordo (metro di misura della produzione economica di una nazione) crescevano a passo sostenuto: sia la classe media che i ricchi miglioravano la loro condizione.
Perciò lasciate perdere tutte quelle storie su ricchi e ultraricchi pronti a scendere in sciopero e ficcare le loro montagne di soldi sotto il materasso se – Dio ce ne scampi – dovessero aumentare le tasse sulle plusvalenze e le normali imposte sul reddito. Gli ultraricchi (di cui faccio parte) continueranno sempre a sfruttare le buone opportunità di investimento.
E ne abbiamo di soldi da investire. Le 400 persone più ricche d’America, secondo la rivista Forbes, quest’anno hanno toccato un record: 1.700 miliardi di dollari, cinque volte di più che nel 1992, quando il loro patrimonio ammontava a 300 miliardi. Negli ultimi anni la mia banda ha fatto mangiare la polvere ai ceti medi.
I tagli delle tasse ci hanno dato una bella spinta: nel 1992, i 400 individui a più alto reddito in America (che non coincidono con i 400 superricchi di Forbes) pagavano in media tasse del 26,4 per cento sul reddito lordo rettificato; nel 2009, l’anno più recente su cui esistono dati, quest’aliquota era scesa al 19,9 per cento. È bello avere amici in alto loco.
Il reddito medio di questo gruppo nel 2009 è stato di 202 milioni di dollari, che equivale a un «salario» di 97.000 dollari all’ora calcolando una settimana di 40 ore lavorative. (Do per scontato che le pause pranzo siano retribuite.) Eppure più di un quarto di questi ultraricchi ha pagato meno del 15 per cento di tasse, sommando le imposte federali sul reddito e i contributi. La metà ha pagato meno del 20 per cento e – reggetevi forte – ce n’è addirittura qualcuno che non ha pagato praticamente nulla.
Una simile vergogna mette in evidenza la necessità di fare qualcosa di più che limitarsi a una revisione delle aliquote più alte, anche se è da qui che bisogna cominciare. Io sono favorevole alla proposta del presidente Barack Obama di eliminare gli sgravi fiscali dell’era Bush per i contribuenti ad alto reddito, ma preferisco che la soglia per revocare questi tagli sia fissata un po’ più in alto di 250.000 dollari, magari intorno ai 500.000.
Oltre a questo, è indispensabile che il Congresso istituisca immediatamente un’aliquota minima sui redditi alti. Suggerirei il 30 per cento sul reddito imponibile fra 1 e 10 milioni di dollari, e il 35 per cento oltre i 10 milioni. Una regola semplice e chiara come questa stopperebbe gli sforzi di lobbisti, avvocati e parlamentari smaniosi di donazioni elettorali per mantenere le aliquote effettive degli ultraricchi ben al di sotto di quelle che pagano persone che guadagnano una minuscola frazione di quello che guadagniamo noi. Solo una tassa minima sui redditi molto alti potrà impedire che l’aliquota dichiarata finisca svuotata dagli sforzi questi paladini dei facoltosi.
È importante soprattutto che questi interventi non siano rimandati in nome di una «riforma» del codice fiscale. Certo, il codice fiscale va cambiato, e urgentemente: dobbiamo fare piazza pulita di meccanismi come le «commissioni di performance», che trasformano magicamente reddito da lavoro in plusvalenze. Ed è rivoltante che una casella postale alle Cayman possa contribuire ai raggiri fiscali di individui e aziende ricchi.
Ma la necessità di riformare questi complessi meccanismi non deve indurci a rimandare la correzione di iniquità semplici e costose. Non possiamo permettere che coloro che vogliono proteggere i privilegiati sostengano impunemente che non si possa fare niente fino a quando non saremo in grado di fare tutto.
Il nostro governo dovrebbe puntare a un livello di entrate pari al 18,5 per cento del Pil e a un livello di uscite pari a circa il 21 per cento del Pil: siamo stati su questi livelli per lunghi periodi in passato e siamo sicuramente in grado di tornarci. Com’è matematicamente evidente, non sarà così che correggeremo il deficit, anzi. Ma stando alle stime più prudenti in tema di inflazione e crescita economica, con questo rapporto fra entrate e uscite manterremmo stabile il rapporto debito/Pil.
Nell’ultimo anno siamo stati ben lontani da questo equilibrio, con un 15,5 per cento di entrate e un 22,4 per cento di uscite. Per cambiare rotta serviranno concessioni importanti sia da parte repubblicana che da parte democratica.
Tutta l’America si aspetta che il Congresso proponga un piano realistico e concreto che ci rimetta sui binari di un bilancio sostenibile. Qualunque cosa in meno sarebbe inaccettabile.
Nel frattempo, se vi capita di trovare qualcuno che ha un’idea fenomenale per investire, ma non vuole portarla avanti per via delle tasse che gli toccherebbe pagare qualora avesse successo, mandatelo da me: ci penserò io a togliergli questo fardello.
L’autore è presidente e amministratore delegato della Berkshire Hathaway.
(Traduzione di Fabio Galimberti).
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