Surfare sull’ultima onda contro le oligarchie finanziarie

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Lo troverete tutto, questo quadro, dettagliato e accompagnato da una attenta analisi dei passaggi, degli eventi, delle scelte e delle metamorfosi che, soprattutto nel corso dell’ultimo trentennio, sono andati a comporsi nel mondo del neoliberismo dispiegato. Stiamo parlando di Rivolta o barbarie, il nuovo libro di Francesco Raparelli (Ponte alle Grazie, pp. 224, euro 10), recentemente approdato in libreria, che ripercorre insieme la marcia trionfale delle oligarchie capitaliste e la storia accidentata dei soggetti molteplici e dei movimenti che le hanno opposto resistenza, rifiutandone le regole e spendendosi nella ricerca di nuove forme di azione politica e immaginazione sociale. Talvolta mancando l’obiettivo, cullandosi in una allusione, sia pur razionalmente argomentata, all’«altrove» o coltivando con rischio e generosità  una destabilizzazione sempre latente dell’ordine sociale. 
Due elementi decisivi, messi in luce dall’evoluzione della crisi, fanno da cornice alla riflessione dell’autore. Il primo è il carattere permanente della cosiddetta «accumulazione originaria» la quale, lungi dal rappresentare il peccato originale di una violenza extraeconomica che pone i fondamenti dell’economia, si rinnova costantemente come brutale rapporto di forze che rastrella e piega le risorse naturali e sociali del pianeta alle pretese della rendita. Il secondo, che immediatamente ne discende, è l’esaurimento di ogni ipotesi riformista, nel senso (sempre più flebile anche tra coloro che la professano) di una correzione minimamente efficace delle politiche liberiste veicolata dalla rappresentanza politica del disagio sociale ingigantito dalla crisi. Da qui, non vi è dubbio, bisogna ripartire, consapevoli del fallimento irreversibile del vecchio strumentario del socialismo. 
Ma chi e come e in quale direzione deve ripartire? Il soggetto della rivolta si staglia, per fare il verso all’ autodefinizione del movimento alterglobalista, come un «soggetto di soggetti». Molteplice, dunque, ma vittima di un medesimo processo di spoliazione, non dissimile da quello che allontanò i contadini dalla terra alle origini del capitalismo, facendone dei «proletari». Analogamente, il capitale finanziario, demolendo il welfare, sottraendo risorse collettive e individuali attraverso la dittatura pervasiva del debito e riconfigurando in forme sempre più ricattatorie il mercato del lavoro, produce una massa crescente di poveri, di soggetti attivi che non sono capitale né umano, né disumano, ma, nonostante la spoliazione subita, dispongono in ogni modo della forza produttiva costituita dalle loro facoltà  cognitive, linguistiche, relazionali, corporee, in breve di una soggettività  generatrice di ricchezza potenzialmente in grado di sottrarsi al rapporto di capitale in cui è imprigionata e sfruttata, di rendersi, cioè, autonoma. Questa potenza prende corpo e cognizione di sé in numerose esperienze di lotta e di movimento, dagli indignados a Occupy , ma non si realizza mai pienamente, nonostante il riconoscimento sempre più vasto di una condizione comune. Non riesce insomma ancora a sviluppare una forza e una forma che ne contrasti il logoramento, metta a tacere le sirene del ricatto e sappia contrastare gli strumenti di divisione. Resta una lacerazione temporanea del tessuto liberista che però sostanzialmente tiene facendo leva sul terrorismo della crisi. Cosa istituisce questo limite, quale è l’argine che i movimenti non riescono a valicare? 
Non è facile dare una risposta, ma forse dovremmo cercarla nella natura della sovranità , politica ed economica ad un tempo, propria del capitale finanziario «postmoderno» (in questo caso forse l’abusato termine riacquisisce un senso) e nelle forme di assoggettamento ferree e sfuggenti che esso esercita. Rispetto alle quali il possesso della propria soggettività  produttiva rischia di essere ancor più indifeso del possesso delle proprie braccia che caratterizzava l’antico proletariato. La signoria dei «mercati» è eticamente molto più detestata di quella dei vecchi padroni delle ferriere, ma decisamente più al riparo dal raggio di azione della rivolta e dall’esercizio di un diritto di resistenza. Possiamo colpirla solo attraverso un meccanismo di sottrazione (o esodo) cui anche Raparelli fa riferimento, ma è una sottrazione né agevole, né pacifica che a molti poveri, sia pur ricchi di soggettività , fa ancora molta paura. L’incubo del bancomat che ti sputa in faccia ha terrorizzato a dovere non solo i Greci. Il sovrano bancario ha in mano i nostri soldi e, attraverso questi, i nostri diritti. In fondo l’usura è sopravvissuta per secoli all’indignazione, alla riprovazione, alla condanna morale. Anche se non reggeva, come invece oggi, le sorti del mondo. Potrebbe essere questa estensione, forse, a fare la differenza


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