Striscia di Gaza, tregua in vista

Loading

GERUSALEMME — Fuoco, fuochino. Cessatelo, ma appena un po’. Ci vogliono tre telefonate di Obama al presidente egiziano Morsi, pubblicamente lodato, e la mediazione di tutte le grandi firme della diplomazia mediorientale — da Hillary Clinton a Ban Ki-moon, dai ministri francesi e tedeschi al ricomparso Tony Blair, e poi gli egiziani e i turchi e i marocchini e i qatarini, perfino i libici intruppati nella Lega araba — per partorire alla fine il topolino d’una tregua che non è una tregua. Forse, «solo un po’ di calma». L’annuncio trionfale e affrettato di Morsi nel pomeriggio, il secondo in tre giorni, poi le smentite della sera. La bozza c’è, le firme no: Netanyahu e Hamas devono promettersi di non spararsi per almeno 24 ore, ma nemmeno quello è nero su bianco. Cauti fin dall’inizio gl’israeliani, «la palla è ancora in gioco»: prima di prendere la penna, vogliono vedere se il tiro al bersaglio da Gaza terminerà  sul serio. Prima trionfali, poi imbarazzati i governanti della Striscia, che già  si vendevano come una vittoria l’imminente silenzio delle armi e ora incolpano Israele: «Anche per oggi non se ne fa nulla», ritrattano, mentre la Clinton atterra nella notte di Gerusalemme: «Sono qui per lavorare a una tregua nei prossimi giorni. L’obiettivo deve essere una soluzione duratura che promuova la stabilità  regionale».
Lo stop converrebbe a tutti. Perché «un’escalation supplementare sarebbe disastrosa per la regione», dice il segretario dell’Onu. Perché Morsi è ansioso di dimostrare agli Usa un ruolo nell’area. Perché turchi e arabi vogliono sottrarsi alle critiche in casa loro: ma come, armate l’opposizione siriana e date solo farina e cemento ai palestinesi di Gaza? Quanto alle parti in causa, l’attacco di terra fa paura a tutti. I ministri israeliani avevano detto che non si negozia con Hamas: al Cairo, gl’inviati di Netanyahu stanno in una stanza separata da quella di Meshaal e Haniyeh, ma il muro è tutto lì, perché nel corridoio dell’hotel vanno e vengono gli sherpa egiziani. «Bibi — scrive la stampa di Gerusalemme — dovrebbe ricordare il consiglio del senatore americano Aiken al suo presidente, quand’era nel pantano del Vietnam: dichiara vittoria e vienitene via». La mediazione internazionale, comunque, si sta rivelando un’intuizione giusta: se Hamas non scucisse (e non mantiene) la promessa di lanciare razzi, dovrebbe renderne conto alla comunità  internazionale, dando a Israele la scusa di future, peggiori campagne militari. Per Hamas, la vittoria è stata comunque l’avere spaventato coi suoi missili Gerusalemme e Tel Aviv, riportando la congelata questione palestinese sull’agenda mondiale e in un tripudio di solidarietà  araba: se questi pre-accordi porteranno a qualcosa, o se falliranno, sarà  però un problema tenere a bada le formazioni più radicali, Jihad e salafiti, che s’oppongono a qualunque negoziato.
Come in ogni guerra, le ore della diplomazia in stallo si rivelano le più feroci. Hamas dà  fondo agli arsenali: 150 razzi, muoiono un soldato israeliano diciottenne e un civile a Beersheva, feriti gravi un uomo in un kibbutz e altri cinque riservisti, sfiorata di nuovo Gerusalemme poco prima che arrivi Ban Ki-moon. Gli F-16 finiscono il lavoro: il giorno porta a 126 le vittime della Striscia, la sera a un bombardamento senza sosta: colpito il palazzo dove ha sede anche l’Afp, crolla sotto le bombe la Banca islamica, muoiono tre giornalisti palestinesi, una famiglia in un’auto, due gemellini di quattro anni nella loro casa. Al più grande ospedale di Gaza City arriva da Ramallah anche Mustafa Barghuti, deputato del Fatah che sfidò Abu Mazen alle presidenziali palestinesi: «Sono qui come medico, prima che da politico — ci dice al telefono —. Spero che questa tragedia porti almeno alla nostra unità , basta con le divisioni tra noi e Hamas. Se arriverà  una tregua, non lo so dire. Per me è solo uno choc: ci sono ferite orribili, cose che in tanti anni non ho mai visto. Io resto qui in ospedale, per un po’ di giorni. Temo ce ne sia ancora bisogno».
Francesco Battistini


Related Articles

Attacco talebano al cuore di Kabul A rischio i negoziati per la pace

Loading

Battaglia di 90 minuti: nel mirino il palazzo presidenziale e la Cia

La guerra non può essere affare della maggioranza

Loading

Dato quanto dispone l’articolo 11 della Costi­tu­zione, infatti, la guerra non è più, per l’Italia, uno degli stru­menti ordi­nari di gestione dei rap­porti inter­na­zio­nale, e può quindi con­fi­gu­rarsi solo come caso estremo di legit­tima difesa

Il vicolo cieco del premier una guerra invincibile che porta solo lutti e odio

Loading

Israele vuole dimostrare di non avere le mani legate Ma continua a eludere la questione dello Stato palestinese.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment