Sempre più soldati e reduci in servizio di ordine pubblico
Nel giro di poco tempo hanno dismesso la divisa di soldato per indossare quella di poliziotto, ma dentro di sé sono rimasti dei militari. E come tali agiscono. Poliziotti addestrati come soldati, perché è dalle fila dell’esercito che ormai proviene la stragrande maggioranza di loro e perché i fondi per riaddestrarli non solo all’uso delle armi, ma anche e soprattutto per fargli capire che anche il più violento dei cittadini non va considerato un nemico, non ci sono. Le conseguenze di questa situazione si sono viste platealmente mercoledì, con le violenze compiute dagli agenti nei confronti dei manifestanti. Scene che hanno invaso la rete e che in queste ore stanno creando lacerazioni anche all’interno delle forze dell’ordine.
Il problema è tutt’altro che secondario. E non è difficile trovare un poliziotto che accetta di parlarne, seppure in forma anonima. La questione è semplice: fino a dieci anni fa l’accesso in polizia era possibile solo attraverso un concorso pubblico. Dal 2000, però, i concorsi sono fermi e l’arruolamento viene garantito attraverso i giovani che, dopo aver trascorso un periodo di ferma breve nell’esercito, usufruiscono della corsia preferenziale riservata loro dalla legge per entrare in polizia e carabinieri, nella Guardia di Finanza o nella polizia penitenziaria. «Il problema – spiega un funzionario con anni di piazza alle spalle – è che questi giovani sono stati addestrati per combattere e obbedire agli ordini senza discutere e non capiscono che il ruolo che ricoprono ora è completamente diverso».
Perdipiù molti di loro hanno alle spalle missioni compiute all’estero, dalla Bosnia all’Iraq, all’Afghanistan. Luoghi dove per sopravvivere devi combattere. «Bisognerebbe addestrarli per spiegargli la differenza tra essere un poliziotto ed essere un soldato, ma i soldi per farlo non ci sono ormai da parecchio tempo», prosegue il funzionario.
Un altro effetto dello stop ai concorsi è la diminuzione del numero di donne poliziotto. Non si tratta di una pura e semplice questione di quote. Le donne che scelgono la ferma breve sono poche e ancora meno sono quelle che poi decidono di passare in polizia. Questo non incide molto sui servizi di piazza (le donne non vengono infatti assegnate ai reparti mobili), ma ha un peso rilevantissimo dal punto di vista culturale visto che quello della polizia diventa un ambiente sempre più maschile e maschilista. «A tutto questo – conclude il funzionario – si deve aggiungere un’ultima considerazione: quando in polizia si accedeva attraverso il concorso, molti giovani laureati sceglievano di intraprendere questa carriera. Adesso chi ha una laurea non viene più in polizia, perché non ha voglia di passare prima alcuni anni della sua vita sotto le armi».
Il segretario del Silp, il sindacato lavoratori della polizia, Claudio Giardullo non è certo uno che si tira indietro se gli si chiede di spiegare cosa è successo mercoledì a Roma. «Certo che no, però prima mi faccia fare una considerazione – dice -: le forze dell’ordine hanno una professionalità altissima e le violenze che abbiamo visto tutti sono opera di singoli che dovranno risponderne». Detto questo? «Detto questo se si vuole capire cosa è successo io dico che ci sono almeno due concause. La prima: sta prevalendo, nella strategia dell’ordine pubblico, l’idea che l’importante è impedire a chiunque di avvicinarsi ai palazzi delle istituzioni. Se il governo non chiarisce che insieme alla tutela dei palazzi ci deve essere la massima tutela dei diritti della persona, qualcuno potrebbe equivocare il suo ruolo. C’è un’ambiguità politica che va risolta». La seconda considerazione fatta da Giardullo è circolata più di una volta negli ultimi tempi, e suona come un grido d’allarme. «Si ha l’idea di usare le forze di polizia come supplenza alle mancanze della politica, e questo è chiaramente sbagliato».
A rendere la situazione più complicata contribuiscono poi altri elementi. Come, ad esempio, la sensazione di instabilità che regna ai vertici della polizia e che l’ultima vicenda del «corvo» ha contribuito ad alimentare. Ma, prima del «corvo», la consapevolezza di essere in una fase di passaggio, di cambiamento del modo di pensare e delle modalità di azione della polizia. Con, finora, una sola certezza: che il «modello» visto all’opera al G8 di Genova è alle spalle ma quale sia quello futuro non sembra saperlo bene ancora nessuno e non è detto che si tratti necessariamente di un passo in avanti rispetto al passato.
In quale direzione si andrà è dunque tutto da capire. Intanto una novità si comincia già a vedere. Da quasi trent’anni un prefetto non siede più sulla poltrona del capo della polizia (gli ultimi tre, Masone, De Gennaro e Manganelli provengono infatti dai ruoli operativi) e adesso i prefetti chiedono un ricambio nelle nomine che consenta loro di tornare ai vertici dell’istituzione. Con tutte le variabili che questo comporterà .
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