SCRIVERE SULLE MACERIE
Il Nobel per la pace all’Unione Europea è un grande riconoscimento, non premia soltanto, racchiude una speranza, un monito. Perché la pace è innanzitutto un’aspirazione. Una parola potente ma temporanea, esiste perché esiste il suo contrario: guerra.
Le generazioni passate non facevano che parlare di guerra, la prima, la seconda, la campagna d’Africa. Non c’era una pacifica abitazione che non avesse qualche residuato bellico, la baionetta di un alpino, gli occhi murati di un parente sopravvissuto all’olocausto. Ma ora il vecchio continente appare sereno.
In questi giorni, all’Aia, è in corso il processo a Karadzic. Sorride, afferma di essere un benefattore. Una donna di Srebrenica dice a una telecamera amatoriale: «Forse lo voleva lui il Nobel per la pace». Non c’è despota che non abbia avuto vocazioni artistiche prima di definire la propria follia. Karadzic è uno psichiatra, studiava il fondo umano e poetava versi d’amore, in televisione andava con il cerone, i capelli ondulati dal parrucchiere.
Sarajevo era nota alle guide turistiche come la Gerusalemme d’Europa. Quando la guerra arrivò la Bosnia Erzegovina aveva appena ottenuto dall’Europa il riconoscimento della sua indipendenza. La festa di quella neonata repubblica fu anche il suo battesimo di sangue. L’inizio è noto: 5 aprile 1992, la grande manifestazione per la pace. “Pace” urlavano le donne, i minatori, gli studenti, i bambini sulle spalle dei padri. La città era stata smilitarizzata, le armi trascinate sulla collina. Nessuno sapeva che erano già puntate contro di loro. Tutti pensavano alla pace.
Mir. Una parola detta, scritta, esortata infinite volte. Svuotata, saccheggiata. Le prime a cadere furono due studentesse, Suada e Olga. Oggi un ponte porta il loro nome.
Come scrittore so che una pace prolungata nasconde un’ipnosi, un rilascio di tensione. La letteratura è il caleidoscopio delle tribolazioni umane e il tempo della scrittura non è mai un tempo di pace. È sempre una battaglia che si combatte contro l’inconosciuto, il sovversivo che cerca una via. E la via è sempre scabrosa. Si tratta di dissotterrare.
Quella dei Balcani è stata una guerra di corpi dissotterrati. Morti di centinaia d’anni prima, come re Lazar, sono stati riesumati e portati in processione, branditi, per disseppellire l’odio. L’essere umano è un campo di battaglia.
La letteratura occidentale inizia con Omero, con un poema di guerra, e va avanti nei secoli. Ogni volta che un uomo ha ucciso un altro uomo su un fronte avverso, uno scrittore ha strisciato verso quel corpo all’addiaccio come Antigone verso Polinice per dargli degna sepoltura. Ogni volta che una guerra è finita uno scrittore ha camminato sulle sue macerie. I libri curano i reduci come bende calde, perché nulla è così vivo come una pagina di letteratura. E ogni guerra brucia biblioteche. A Sarajevo la Biblioteca Nazionale veniva chiamata La Vecchia: una anziana amica, amica di tutti, pulsante di arterie, di infinite periferie della Storia, che mai aveva chiesto un passaporto etnico ai suoi inquilini. Venne bruciata in agosto, la città si ricoprì di una polvere grigia, greve, scaglie che si depositavano sul fiume. Uno di quei libri bruciacchiati io l’ho avuto tra le mani. Era una copia di Il ponte sulla Drina di Andric, la ragazza che me lo mostrò sembrava porgermi un meteorite.
Ricordo la prima volta che scesi in quell’aeroporto alle pendici dell’Igman. Mi aspettavo una guida navigata e mi trovai di fronte un ragazzino con le orecchie a sventola, le guance scavate. Mi parlò dei Simpson, li guardava in tv quando la guerra scoppiò e le trasmissioni s’interruppero. Goran sapeva esattamente dove portarmi. Aveva fatto molte volte il tour della guerra, era quello che i turisti volevano: il tunnel scavato sotto l’aeroporto, il cimitero ebraico, gli stecci bogumili
colpiti dai cecchini. Era questa l’economia postbellica. Il festival del cinema era finito da poco, sui muri rattoppati malamente passava il volto di Ingrid Bergman, i suoi occhi, le sue labbra di velluto rosso. In terra le famose rose di Sarajevo, gli squarci lasciati dalle granate, quelli della strage del pane, del
markale, verniciati di rosso. Non riuscivo a metterci i piedi sopra, poi mi abituai, camminai come tutti.
Sotto la crosta della vita il dolore era intatto. Dietro ai nuovi tram c’erano le carcasse di quelli incendiati. Dietro ai nuovi bambini c’erano i bambini sepolti al cimitero Leone. La città aveva perso la sua carne, si era ruralizzata, islamizzata. Nel quartiere ottomano non servivano alcolici. Goran mi portò a bere nella zona serba. Diventammo amici. Non parlammo più della guerra, mangiammo pita imbottita. Mi raccontò gli anni in Italia, la vita da profugo in una periferia del nord, i banchi di scuola dove si sentiva non un bambino, ma una carcassa di cane. Mi disse che si era fatto di eroina. Lo guardavo, sembrava il bambino dei Simpson.
Non so se la letteratura possa lenire o risarcire. Però può dare un nome alle cose. Il dolore non trova casa nella nostra finta pace, ma la scrittura può correre questo rischio. Perché cosa resta quando i telegiornali, i fotografi, la stampa estera se ne vanno? La letteratura torna sulle piazze sporche come quelle dopo i concerti. È un detective ritardatario, un tossico con la scimmia, vaga, raccoglie qualche avanzo. In mezzo agli indizi finiscono cose che non c’entrano nulla, pezzi caduti a qualche passaggio successivo, che inquinano le prove, eppure te li infili in tasca perché la scrittura è un tessuto malleabile, a più strati, si lascia infiltrare per dovere.
Al ritorno in Italia mi chiusi in una camera in affitto, era un residence per uomini soli, commessi viaggiatori, mariti abbandonati. Puzza di uova fritte alle due di notte. Si trasformò in una stanza sarajevita, i ritagli di giornale incollati ai vetri, la cartina militare con le zone rosse, la guida per la sopravvivenza: come costruire una candela a olio, come attraversare una strada a zig zag. Sono partita dalle cose. Le cose che facevano loro per sopravvivere. Perché un assedio è una guerra ferma, metafisica, tutto è coperto dal ghiaccio. La vita è sommersa nelle cantine dove si vive, si grattano i muri per mangiare, si uccidono i cani eppure si fa l’amore. Jovan Divjak, il generale di etnia serba che difese la città dei bosgnacchi, mi ha detto che l’amore non è mai mancato, come non è mai mancato l’umorismo: «Hai trovato per caso il mio orecchio?» dice un tizio sanguinante a un altro dopo un bombardamento. «Che ti frega, corri in ospedale» gli risponde quello. Ma il ferito è disperato: «No, cazzo, c’era una sigaretta attaccata a quell’orecchio!».
James Hillman afferma che la guerra non è disumana ma umana, troppo umana. La letteratura evoca, non ricorda, ri-crea. Io ho ricreato dai silenzi. Perché ho imparato che i reduci non hanno fiato. Si siedono sulla porta muti come il filosofo folle sulla soglia del Novecento.
L’anno scorso il Nobel ha premiato tre grandi donne. Penso alle donne di questa guerra accaduta nel cuore dell’Europa. Penso a quanto meriterebbero un riconoscimento, per quello che hanno fatto e che hanno detto dopo. Hanno parlato con la pace dentro e davvero non puoi credere dove l’abbiano trovata.
Perché la Bosnia è le sue donne. Quelle che hanno fatto la fila per l’acqua, sepolto i figli con una coperta, cucinato ortiche e aria. Le donne senza ciclo, affamate, mai arrese, che hanno camminato con i tacchi e il rossetto perché mai avrebbero ceduto la loro bellezza alla guerra. Come si può dimenticare le ragazze del concorso di miss Sarajevo?, quel nastro tra quelle gambe bellissime: «Don’t let them kill us». Sono andati in casa a prenderle. È una vecchia pratica della guerra usurpare il nido, usare la donna come un pezzo di terra da occupare, da fecondare con il seme infetto. Così che l’odio corra sotto la carne e sotto la terra, così che tutto sia inferno.
Cosa dev’essere stato dopo, camminare nelle strade dove gli aguzzini avevano dismesso le mimetiche e andavano in giro liberamente? Le donne hanno ricominciato dalle cose, chiudendo lamponi in un barattolo, scrivendo, ricamando un tombolo con mani di ogni etnia.
Quest’anno è il ventennale dell’assedio. Le immagini hanno fatto il giro del mondo. 11541 sedie rosse, il numero esatto delle vittime. Una interminabile ferita lungo il corso principale. Le sedie piccole erano i bambini.
Siamo tornati a Sarajevo molte altre volte, tanti artisti hanno continuato a venire, perché questa città sprigiona una forza ustionante. Un monumento riproduce una scatola di carne degli aiuti umanitari, con le stelle dell’Europa. Inutile dire quanto questa gente si sia sentita abbandonata. Oggi l’aria è diversa, c’è voglia di dimenticare quel poligono all’aperto. Il Museo Nazionale ha chiuso, ma il restauro della Biblioteca va avanti, nella Bascarcija si beve buon caffè italiano. Jovan Divjak ha messo su un po’ di peso. In un bellissimo francese dice: «Io mi sento europeo, la Bosnia è Europa».
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