Scene da un patrimonio

by Sergio Segio | 6 Novembre 2012 7:46

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Fanno impressione certe somiglianze fra la crisi economica in cui siamo immersi dal 2007-2008 e la guerra al terrorismo iniziata nel 2001. Ambedue posseggono una perennità  immota, refrattaria all’autocritica. La guerra al terrore ha imparato poco da errori e sconfitte, e resta permanente come Bush la voleva: la forma s’è fatta più infida, ma la guerra dei droni dilatata da Obama non la limita nel tempo. Così la crisi: uno dopo l’altro i rimedi falliscono, ma il vizio d’origine rimane, e dunque è pensata anch’essa come permanente. Il vizio è la sovranità  che i mercati continuano a esercitare senza controlli sulle società , sugli Stati, sul popolo che in democrazia è sovrano. Nulla sembra mutato rispetto ai tempi in cui Keynes denunciava – poco dopo l’ascesa di Hitler, nel giugno 1933 – l’«imbecille linguaggio finanziario» che anteponeva al benessere dei cittadini i «risultati finanziari», e trasformava l’esistenza umana nell’«incubo di un contabile».
Si può uscire da un incubo imbecille? È la domanda che si pone Salvatore Settis nel suo ultimo libro (Azione popolare – Cittadini per il bene comune, Einaudi). Il peggio non sembra finire mai, ma «con l’acqua alla gola in un mondo senz’altre regole che il profitto, stiamo cercando per ogni dove vie d’uscita, principi di moralità , ragioni di speranza». Nel saggio citato dall’autore, Keynes dice che la «città  delle meraviglie» bramata dai cittadini non è un’utopia impossibile, né maligna. Se non si realizza, è perché non frutta subito. Fruttano più gli slum, per le imprese private, mentre la città  delle meraviglie, questa folle stravaganza, «potrebbe ipotecare il futuro». Non è vero che non possiamo permettercela a causa del debito. Questo ci dice Settis: in realtà  i conti non tornano con le ricette che creano disuguaglianze e bassifondi. L’imbecillità  contabile è tutta qui: è nella rinuncia dell’Italia a se stessa, alle alternative di cui potrebbe essere capace.
Per le nozioni che approfondisce – il bene comune, la proprietà  pubblica, l’ecologia – il libro di Settis è vademecum indispensabile. Disegna su un foglio la città  delle meraviglie. Il ragionamento ruota attorno a un’idea forte (un pensiero dominante, lo chiamava Leopardi): il principio del bene comune, che protegga da saccheggi i beni comuni usati dai cittadini. Il diritto romano distingueva fra cose pubbliche extra commercium, rigorosamente sottratte al mercato, e res in commercio: quel diritto ci ha formati, è la nostra forza.
La corsa alle privatizzazioni di beni e servizi pubblici, le cartolarizzazioni avviate da Tremonti con la complicità  della sinistra (l’idea era di ripianare il debito cartolarizzando e poi dismettendo – dunque in prospettiva svendendo a privati – non solo edifici pubblici ma paesaggi e patrimoni artistici, immettendoli come garanzie in fondi immobiliari privati): sono tutte iniziative che violano tradizioni antiche e la Costituzione. Che spezzano il nesso fra sovranità  popolare, diritti che dalla sovranità  discendono, e proprietà  pubblica di interesse collettivo (o demanio inalienabile). La cartolarizzazione venne interrotta: costava un’enormità . Ma è stata trasferita ai Comuni, obbligati per bisogno di soldi a operazioni che per forza preludono a dismissioni. Dismissioni incostituzionali, perché i beni pubblici sono dei cittadini: lo Stato siamo noi, diceva Calamandrei, e anche i suoi beni.
Per uscire dalla grandiosa pestilenza urge un altro modo di far politica, globale e locale. Il che vuol dire: un altro modo di possedere, come scriveva nel 1853 Carlo Cattaneo. Un modo che preservi i beni appartenenti ai cittadini. Urge un’etica «ricalibrata» sulla terra in pericolo: una situation ethics, la chiamò negli anni ’60 Joseph Fletcher, pioniere della bioetica, che ridefinisca i ruoli dello Stato, della sovranità  popolare, del mercato, a seconda delle circostanze. Urge infine una volontà  di resistenza che oggi manca: o perché interiorizziamo il culto religioso dei mercati, o perché in partenza rinunciamo.
Il pericolo della rinuncia è il filo conduttore del libro, l’incubo di Settis. L’autore ricorda un articolo, straordinario, scritto da Corrado Alvaro nel ’44: lo sguardo è cupo, sulle nostre capacità  di riapprendere una moralità  pubblica. Perché rinunziamo? Alla domanda, tormentosa, Alvaro risponde che accanto a un popolo resistente, colmo di meriti, permane un ceto politico in cui trionfano «mezza cultura, conformismo, feticismo, mancanza di senso critico»; in cui «il Nord si è presa la parte del gran corruttore, il Sud quella del complice e corrotto»: «una classe dirigente guasta per sempre». Alvaro chiamò inaderenza il disinteresse politico per i problemi, i bisogni, le verità  del Paese. È la conferma che la Costituzione fu figlia delle speranze resistenziali, ma anche dei neri timori di veggenti come Alvaro o Calamandrei.
Arginare un mercato divinizzato che malgrado le disfatte continua a esser sorretto da teologie anti-statali è possibile, scrive Settis: con azioni pubbliche di resistenza, come nel referendum sull’acqua. Il manifesto già  l’abbiamo: è la Costituzione, quest’Incompiuta sempre violata. È l’arma che abbiamo contro la veduta corta del berlusconismo, e l’assillo contabile del governo tecnico. Pur non nominando le generazioni future, ne ha cura. Dice questo l’articolo 9, che obbliga la Repubblica a tutelare, non svendere, paesaggi e patrimoni artistici. O gli articoli 41-42: tanto avversati, perché costringono le libere imprese a non agire «in contrasto con l’utilità  sociale», e proteggono la proprietà  privata ma ne assicurano la «funzione sociale». Il bene comune è custodito per i posteri.
La Costituzione come baluardo: ecco la zattera di salvataggio, secondo l’autore. Ecco come potremo opporci al presente corto che ci ossessiona, dimentico del passato e cinicamente indifferente alle future generazioni. Ecco come potremo coniugare l’amore del prossimo, l’amore del lontano di Nietzsche, l’amore di Antigone per leggi non contingenti. I lontani che abitano il futuro sono già  qui, dice Settis – sono i nostri cittadini necessari, «presenti da subito nell’orizzonte della moralità  e del diritto». Già  sappiamo le loro domande.
Se non impariamo la «lungimiranza bifronte» (verso passato e futuro) davvero avremo rinunziato. Tornando a Keynes: sarà  tale l’incubo del contabile, che distruggeremo «le campagne perché gli splendori naturali non hanno valore economico. Siamo capaci di spegnere il sole e le stelle, perché non danno dividendi».

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