Rodotà con Landini: «A rischio è il diritto»
Un serpentone che dalla Avio attraversa la zona industriale, fino a invadere il cuore di Pomigliano. Che ci fa qui un pilastro su cui si reggono diritto e legalità ? «Sono qui – risponde – proprio perché sono un maniaco dei diritti». Pomigliano «è un luogo simbolo della lotta operaia che dilaga in tutt’Europa, un esempio per tutti», aggiunge il professore che sembra a suo agio ancor più che in un’aula universitaria. Dal rumoroso palco dove fino a mezz’ora prima il Gruppo operaio di Pomigliano d’Arco aveva riscaldato una piazza Primavera operaia, studentesca e popolare, Rodotà spiega che per stare davvero dalla parte dei diritti «non basta scrivere libri o articoli di giornale, bisogna stare insieme a chi si batte per difenderli», per sé e per tutte le persone. Perché «se una sola persona viene discriminata, è a rischio la libertà di tutti».
Lo stesso concetto viene coniugato in tutte le lingue, e non solo con accento napoletano. Qui a Pomigliano sono arrivate rappresentanze metalmeccaniche da tutt’Italia, dalle fabbriche Fiat di Melfi, Cassino, dall’Irisbus, dall’indotto Magneti Marelli – dove 850 lavoratori rischiano di essere cancellati e di aggiungersi agli oltre 2.600 tenuti fuori dalla newco di Pomigliano (Fip), vuoi per discriminazione sindacale vuoi perché Marchionne «è un imbroglione» e dei suoi piani, investimenti e modelli resta solo la cenere. L’ad Fiat ha imbrogliato tutti quelli disposti a farsi imbrogliare, in campo sindacale, politico, amministrativo. La dignità degli operai del no al ricatto padronale che fa sentire a casa sua Rodotà oggi sembra meno isolata, «la Fiom è un esempio perché ha scelto la strada della legalità che è un principio fondativo», insiste il professore. E Libera invia una lettera di adesione alla lotta della Fiom. C’è una legge del 2003 in Italia che impedisce la discriminazione e condanna chi la pratica. Marchionne ha discriminato gli iscritti alla Fiom e grazie a questa legge è stato condannato ad aprire a 145 di loro i cancelli. Non basta, anche la sua risposta basata sulla rappresaglia contro la Fiom e la magistratura è illegale, come recita l’art. 4B della stessa legge: metterne fuori degli altri, o gli stessi, come risposta arrogante all’ordinanza è vietato. Nel calcio, sarebbe fallo di reazione a cui l’arbitro fa seguire il cartellino rosso. La Fiom, ha annunciato il segretario Maurizio Landini tra gli applausi, ha già presentato un nuovo ricorso per chiedere di sanzionare l’eventuale espulsione di 19 dipendenti per lasciare il posto ai 19 della Fiom che l’ordinanza della Corte d’Appello ingiunge alla Fiat di assumere.
È un corteo ricco, composito, ben accolto dalla città vesuviana i cui negozianti non abbassano le serrande, i cui cittadini osservano con simpatia dai terrazzi e dalle finestre. Ci voleva, dopo due anni di solitudine operaia. Gli studenti sono tantissimi e rumorosi, hanno slogan creativi, petardi scoppiettanti e fumogeni rossi. «Pomigliano dal ricatto al riscatto», scandiscono mentre sul palco si canta «tu ti lamenti ma che ti lamenti/ pigghia lu bastuni e tira fora li denti». Ci sono delegazioni della Cgil bancari, della Filt, dei pensionati Spi. La Cgil in quanto tale, invece, non c’è: la confederazione ha scelto di manifestare a Napoli, in piazza del Gesù. Solidarietà alla Fiom va bene, ma senza esagerare. Questa volta con operai e studenti nella giornata dell’eurosciopero si fa vedere anche la politica con i big della sinistra. C’è il sindaco di Napoli De Magistris, salta fuori persino qualche bandiera tricolore del Pd.
La giornata era iniziata molto prima dell’alba con i picchetti alla Avio e all’Alenia, sotto lo striscione indirizzato agli aspiranti crumiri: «Entra, aiuta Marchionne a renderti schiavo». Ma qui non entra nessuno. Entrano invece alla Fip gli operai del sì, i 2146 prescelti dal capo, spremuti e ricattati dai team-leaders: «Se scioperi puoi diventare uno dei 19». Così i militanti della Fiom, che di responsabilità ne hanno da vendere, hanno evitato di fare presidi davanti alla Fip. Da dentro però, chi non ce la fa più telefona ai compagni discriminati: «Hanno addirittura riempito la fabbrica di monitor che trasmettono un telegiornale aziendale che chiede consenso e mette paura». Eccolo il sistema Marchionne, che ben conosce uno come Giovanni Barozzino, uno dei tre licenziati di Melfi che nonostante tre gradi di giudizio positivi sono tenuti a casa, pagati ma guai a presentarsi ai cancelli: «Come operaio non posso lavorare, come delegato Fiom non posso andare alla saletta sindacale perché il mio sindacato non è riconosciuto. L’unica cosa che mi rende simile agli altri operai è la cassa integrazione, tre settimane al mese su quattro».
Contro la paura si sfila a Pomigliano, e contro le politiche liberiste come nel resto dell’Europa. Al tentativo di scatenare una guerra tra poveri, Landini risponde con la solidarietà : ai lavoratori Fiat di Kragujevac, in Serbia, a cui per costruire i modelli sottratti a Mirafiori si impongono turni di 10 e anche 12 ore giornalieri. Persino agli operai del sì a Marchionne si rivolge fraternamente, e ai sindacati complici, Fim e Uilm, chiede di ripartire insieme, perché il piano Fabbrica Italia che era un imbroglio non esiste più, «dobbiamo chiederne uno nuovo, basato sulla solidarietà e sul rientro di tutti i lavoratori rimasti al di là dei cancelli». Sono gli stessi operai Fiom «ripescati» dalla giustizia a dire «non siamo qui per far rientrare 19 compagni, e neanche i 145 della Fiom ma tutti i 2600 tenuti fuori dal lavoro». Anche quelli che per salvare il lavoro hanno rinunciato ai diritti, e ora sono rimasti senza diritti e senza lavoro. E le cose non vanno meglio per chi è in Fip, con una Fiat in fuga dall’Italia e una politica finora assente. «Attenti», grida dal palco Landini, «o tornate a rappresentare il lavoro oppure si approfondirà il solco che divide la politica dalla gente. E in un paese, in un’Europa dove i tassi di disoccupazione sono ormai fuori controllo, c’è il rischio che venga meno la tenuta democratica». E’ già successo nel Vecchio continente, quando la crisi e la disoccupazione hanno aperto la strada alle peggiori avventure autoritarie.
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BRUXELLES — I «sette nani» o i «magnifici sette», a seconda di come li si voglia considerare: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Finlandia, Austria, Ungheria e Gran Bretagna sono i sette Paesi che direttamente o indirettamente hanno agitato il vertice Ue. E soprattutto, che in qualche caso si sono messi di traverso sulla strada di Angela Merkel, «sparando» sulle sue proposte rigoriste: quasi che la minaccia di commissariare la Grecia sia stata interpretata da qualche altra nazione come rivolta a se stessa.