Quelle regressioni in nome del capitale

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I temi, evocati nel titolo, convergono nell’analisi dei processi di riorganizzazione dei poteri statuali e «globali» sotto l’incalzare dell’offensiva neoliberale. La grande questione dibattuta è, dunque, tra le più classiche: come l’economico plasmi il politico a propria immagine e somiglianza (non soltanto in forza di una gerarchia «naturale», ma anche per l’attuarsi di scelte consapevoli), e come il politico, a sua volta, contribuisca alla sovranità  dell’economico (qui e ora, nella forma del capitale finanziario) operando sui terreni-chiave dell’architettonica istituzionale e della legislazione.
Ferrara non usa mezzi termini – e la pulizia del dettato, unitamente all’impiego di un lessico scevro da tecnicismi, è un pregio non marginale della sua pagina. Cifra di questo nostro tempo è, scrive, l’attacco alla sicurezza (non dei beni patrimoniali, ma della vita stessa, e della dignità  delle classi lavoratrici) da parte della «violenza neoliberista», un attacco che si concentra sui diritti sociali, cuore pulsante della democrazia. Come questa guerra di movimento si sia sviluppata nel corso di questo trentennio è cosa nota, la sua ratio cruciale consistendo nello spostamento del baricentro dagli apparati pubblici (operanti a beneficio della generalità , quindi prevalentemente a spese delle élites) al mercato (il quale, tradotti in merce i diritti, ne seleziona i fruitori su base censitaria). Ma, come accade, il noto è in questo caso per lo più misconosciuto. E questi scritti, distillato di una sapienza giuridica nutrita da alte ragioni politiche e morali, ne permettono la più sicura decifrazione. Di là  dalle parvenze fenomeniche (e dai mascheramenti ideologici: si pensi al tema del debito, la cui pertinenza è quanto meno dubbia laddove a vantare crediti siano detentori di masse di «denaro prodotto a mezzo di denaro»), la trasformazione degli assetti istituzionali è – Ferrara puntualizza – in essenza «lotta di classe che si dispiega nella dimensione del giuridico».
Recessione e liberazione: questi due termini riassumono in sé, paradossalmente, il senso della «grande trasformazione». Recessione in che senso? Liberazione di che cosa? A liberarsi, in questi decenni, dal giogo degli Stati e della sovranità  democratica, sono stati i capitali, in forza della finanziarizzazione della dinamica riproduttiva: del divenire della finanza fine in sé, potere autonomo e sovrano. A recedere, prima ancora delle economie pubbliche sotto la dittatura delle oligarchie finanziarie, è stata, pertanto, la democrazia, mercé la vandalizzazione delle Costituzioni nate dalla lotta antifascista di liberazione sociale. A cominciare dalla nostra, figlia della resistenza partigiana.
Non sorprende di certo, poste tali premesse, che molte e dense pagine Ferrara dedichi precisamente al caso italiano. Al lettore del suo libro – che vivamente auspichiamo non sia soltanto chi è già  convertito a una prospettiva critica – raccomandiamo in particolare i capitoli sulle riforme elettorali, magistrali nell’esibizione del connotato francamente anticostituzionale dei sistemi maggioritari («ad essere colpiti sono gli elettori che, per non aver contribuito a formare quella minoranza più consistente che detiene la maggioranza dei seggi in parlamento, risultano esclusi dalla partecipazione alla politica nazionale, riconosciuta come diritto a tutti i cittadini dalla nostra Costituzione all’art. 49»), del loro esito antidemocratico (la «democrazia di investitura», consistente nell’instaurarsi di un potere monocratico e irresponsabile, incline all’assolutismo) e del carattere usurpativo dell’esercizio, da parte del parlamento, di un potere costituente del quale esso non dispone. Il bilancio che Ferrara trae da questa sequenza di forzature, di violazioni, di illeciti mascherati da riforme è una radiografia dello scempio che sta sotto i nostri occhi (e che costituisce un saldo tratto di continuità  tra l’imperversare del Cavaliere, da tutti riconosciuto non legittimo, e quello del suo onorato successore, da troppi ritenuto, invece, irreprensibile): «asservimento al capo del governo dell’assemblea parlamentare; svuotamento della rappresentanza; occultamento e repressione del conflitto; negazione della funzione di civilizzazione della convivenza che esso svolge se costituzionalizzato; preclusione, infine, che ne possa conseguire una risposta alle domande della democrazia e alle esigenze di soddisfare i bisogni sociali».
Ma l’analisi non si attiene alla sola vicenda – regressiva – del nostro paese al tempo della «rivoluzione passiva» neoliberale. Scava, invece, in una prospettiva generale, negli stessi presupposti politico-storici dell’odierna crisi democratica, incarnata al massimo livello di efficacia e pervasività  dall’operato delle istituzioni europee e dal loro stesso fondamentale deficit di legittimazione. Al centro è dunque, si potrebbe dire, la questione delle questioni, posta già  dal Marx giovane e grandissimo della Questione ebraica. Il nodo è questo: come potrebbe il capitale, in tempi di crisi della propria riproduzione allargata, tollerare interferenze autenticamente democratiche nel comando dei corpi sociali, depositi di forza-lavoro e luoghi deputati alla valorizzazione? A questa altezza, come Ferrara documenta, si pone il colpo di Stato sotteso alla costituzionalizzazione del liberismo a mezzo dei Trattati della Ue, realizzato mercé il trasferimento (affatto illegittimo) della rappresentanza politica dai parlamenti ai governi nazionali, quindi da questi alle istituzioni intergovernative dell’Unione.
Si legge, questo libro, con un misto di sentimenti che vanno dall’ammirazione per l’autore e dalla gratitudine nei confronti del suo magistero, alla collera nei riguardi di chi ha scientemente cooperato alla distruzione di assetti e diritti conquistati a prezzo di lotte durissime. Si legge, soprattutto, con la serena consapevolezza di nutrire la passione critica di ragioni e di meditata conoscenza.


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