Quattro anni all’ombra del grande cra, il verdetto degli USA alla cura Obama

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MITT Romney è entrato in un universo parallelo». La dichiarazione è pesante per la fonte da cui arriva: la General Motors. La più grande azienda automobilistica respinge così le false notizie diffuse dal candidato repubblicano, sulla delocalizzazione in Asia della produzione dei Suv. Quella frase coglie un aspetto centrale di questa campagna elettorale. Il 6 novembre gli americani diranno se è “nell’universo parallelo” di Romney che hanno deciso di credere. Quale versione dei fatti, sulla crisi economica, le sue cause profonde, le terapie per uscirne, alla fine sarà  risultata
più credibile per la maggioranza degli elettori.
«It’s the economy, stupid». È il presidente che vinse usando quello slogan (nel 1992, contro George Bush padre), a capire che la destra va contrastata sul terreno della “narrazione” della crisi. «I repubblicani — dice Bill Clinton — hanno lasciato a Barack Obama un’economia disastrata. Ora lo accusano di non averla riparata abbastanza in fretta. E come alternativa propongono di tornare alle stesse ricette che provocarono quel disastro».
Nell’universo parallelo della
destra, la versione è esposta nel modo più efficace dal vice di Romney, l’ideologo fondamentalista del liberismo Paul Ryan. «Le politiche di questo presidente — dice Ryan — sono un esempio estremo di statalismo, clientelismo, spesa pubblica erogata agli amici. Voi, lavoratrici e lavoratori d’America, siete stati tagliati fuori da quegli affari». La storia viene riscritta, gli ultimi quattro anni vanno ricordati come un piano inclinato che sospinge l’America verso il socialismo, con una burocrazia statale sempre più invadente e oppressiva, gli “amici del
presidente” che ricevono sussidi per l’energia solare, i sindacati che dettano legge, un esercito di parassiti che si fanno mantenere dal Welfare (è il famoso «47% di americani che si sente vittima e attende un aiuto dallo Stato», secondo la battuta di Romney a una cena di amici milionari).
Per attirare gli elettori nel suo universo parallelo, la destra deve prendersi qualche libertà  con i numeri. Le dimensioni della burocrazia federale oggi, al termine del primo mandato di Obama, sono inferiori all’epoca in cui Clinton lasciò la Casa Bianca. Nel 2000 le
entrate federali valevano il 20,6% del Pil, oggi solo il 15,4%. La pressione fiscale sui ricchi è più bassa di quando alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, il presidente venerato dai repubblicani. Oggi l’un per cento dei contribuenti più ricchi paga in tasse i due terzi di quanto versava nei primi anni Ottanta. I sindacati non sono mai stati così deboli: rappresentano solo l’11,8% di tutti i lavoratori americani contro il 13,3% nel 2002 e il 28,3% negli anni Cinquanta.
Ma se Romney conserva intatte le probabilità  di vittoria — i sondaggi confermano il suo leggero
vantaggio su scala nazionale, controbilanciato da un lieve vantaggio di Obama negli Stati più decisivi — vuol dire che il suo universo parallelo ha qualche aggancio con la percezione della situazione economica. Un economista ascoltato da ambedue la parti è Alan S. Blinder — fu nominato ai vertici della Federal Reserve da Clinton, ma è un autorevole editorialista del
Wall Street Journal,
giornale di riferimento della destra. Blinder spiega perché possono coesistere due visioni opposte: «Due verità  sono altamente rilevanti in questa campagna elettorale. La prima: quattro anni dopo il terribile panico finanziario che seguì il crac di Lehman Brothers, l’economia americana è ancora malata. Seconda verità : sta migliorando. E avendo subìto la crisi più grave dalla Grande Depressione degli anni Trenta, la guarigione è lenta». Romney dice la verità  quando afferma che la crescita è rallentata negli ultimi treanni:dal2,4%del2010all’1,7% di quest’anno. Ma il bilancio è più positivo se si guarda all’occupazione. La recessione fece salire il tasso di disoccupazione fino al 10%, oggi è sceso sotto l’8%.
Dove la contro-narrazione della destra si discosta nettamente dalla realtà , è nel ricostruire le scelte di politica economica di questo quadriennio. Romney deve inventarsi il trasferimento della produzione Gm e Jeep-Chrysler in Asia, per occultare il fatto che lo “statalismo” di Obama ha salvato quell’industria automobilistica
made in Usa
che lui avrebbe lasciato fallire. Romney poi evita di ricordare che Obama ha avuto le mani (quasi) libere solo per il primo biennio. Nel novembre 2010 i repubblicani hanno vinto le elezioni di mid-term, hanno conquistato la maggioranza alla Camera, e da allora hanno praticato un ostruzionismo sistematico su ogni legge di entrata e di spesa. Se il presidente fosse riuscito a varare l’anno scorso il suo American Jobs Act — 250 miliardi di sgravi fiscali e 200 miliardi di investimenti — oggi il livello della disoccupazione sarebbe più basso, e la crescita più vigorosa.
Resta da spiegare perché la narrazione democratica non risulti nettamente più forte e convincente. Una chiave è “The Invisible Stimulus”. È il titolo della grande inchiesta realizzatadaunaillustrerivista della sinistra liberal,
Harper’s.
Lo “stimolo invisibile” è quella manovra di spesa pubblica che Obama riuscì a varare quando il partito democratico aveva ancora la maggioranza in entrambe i rami del Congresso. Si chiamava Recovery Act, venne approvato il 13 febbraio del 2009, con stanziamenti pari a 787 miliardi. Avrebbe
dovuto essere il New Deal di Obama. Ma le squadre di reporter di
Harper’s
hanno setacciato l’America permoltimesi,incercadiun’icona equivalente al ponte Golden Gate di San Francisco, o alla diga Hoover Dam, grandi opere associate a torto o a ragione nella memoria collettiva degli americani con la battaglia di Franklin Delano Roosevelt contro la Depressione. Dopo le devastazioni inflitte a
New York e nel New Jersey dall’uragano Sandy, molti commentatori progressisti hanno fustigato Romney per i suoi propositi di privatizzazione della protezione civile. Qualcuno si è spinto un passo più avanti, e si è chiesto: perché nel New Deal di Obama non c’è stato un grande piano nazionale per affrontare il cambiamento climatico? O almeno, per interrare le linee elettriche che ancora penzolano
dai pali, provocando incendi
ad ogni tornado?
La critica “da sinistra” a questo presidente, imputa la sua possibile sconfitta alle grandi delusioni del suo elettorato più entusiasta e più radicale: giovani, minoranze etniche, lo hanno trovato troppo moderato, privo di grandi visioni. Ma i limiti dell’azione di Obama hanno radici antiche. La middle class americana — questo
concetto che abbraccia classi lavoratrici e ceto medio — perde potere d’acquisto, tenore di vita e status sociale da trent’anni. Il reddito della famiglia media oggi è inferiore dell’8% rispetto a 11 anni fa. La dilatazione delle diseguaglianze, la deriva oligarchica che corrode alle fondamenta l’American Dream, ha avuto origine nelle politiche neoliberiste che furono perseguite dai repubblicani (Reagan, due Bush) ed anche sotto Clinton. L’attuale presidente ha avuto le mani legate non solo dall’ostruzionismo repubblicano ma anche dal suo stesso partito, il cui asse politico si è spostato sempre più a destra nell’ultimo trentennio.
La beffa di una vittoria di Romney, sarebbe il bis di quella di Clinton nel 1992. Allora l’economia si stava riprendendo, gli effetti della crescita però non si sentivano in modo palpabile, diffuso e convincente. Bush padre fu cacciato per una crisi economica che era già  alle spalle. Se dovesse accadere lo stesso a Obama, alla beffa si aggiungerebbe un pericolo reale: il ritorno dell’economia “vudù” (l’illusione di ripianare i deficit con meno tasse), del mercato senza regole, del governo dei pochi nell’interesse di pochi.


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